(Carla Melis) - “Israele oramai non vanta più successi militari e politici, si trova in una posizione di arroccamento, teme un accordo tra Iran e Occidente e lo percepisce come una minaccia. Bisogna trovare il modo di far uscire Tel Aviv dall’isolamento, fargli accettare il dialogo con Tehran. Da qui si potrebbero sbloccare le cose nella regione mediorientale”. Ne è sicuro Alberto Negri, classe 1956, inviato del Sole 24Ore e da oltre 33 anni uno dei più apprezzati reporter di guerra italiani. Ha girato il mondo e con la sua penna ha raccontato molti conflitti, quelli conosciuti e quelli spesso all’ombra dell’opinione pubblica. In un’intervista a SpondaSud, Alberto Negri fa una panoramica sulle principali aree di crisi nel mondo arabo e mediterraneo, partendo dal conflitto israelo-palestinese, nodo ancora oggi irrisolto e la cui soluzione sembra purtroppo ancora lontana.
Negri, che cosa pensa del processo di pace tra Israele e l’Autorità Palestinese, anche alla luce della visita di Papa Francesco in Terra Santa?
Il viaggio di Bergoglio ha indicato in maniera concreta la divisione tra israeliani e palestinesi. Una suddivisione chiaramente iniqua se si pensa alla proporzione tra popolazione e territorio occupato. Obama ha tentato in tutti i modi di trovare un successo che gli è sfuggito con l’inizio delle primavere arabe. Ci ha riprovato una seconda volta con il sottosegretario di Stato John Kerry. Anche lui, nel mese di aprile, ha alzato le braccia in segno di resa.
Vuole dire che non c’è nulla da fare e dobbiamo rassegnarci a una guerra perenne tra israeliani e palestinesi?
Non dico questo. Tel Aviv però deve uscire dall’isolamento e guardarsi intorno. Deve capire che ci sono nuovi equilibri globali e nuovi soggetti che non si possono ignorare. La posizione di Israele nel contesto regionale è contraddittoria, anche perché non è riuscita nel dialogo con il mondo arabo. Poi ci sono le guerre. Quella del 2006 in Libano contro Hezbollah sappiamo come è andata a finire.
Oggi c’è la guerra in Siria però…
Appunto. Quel conflitto ha complicato ulteriormente le cose, ha messo in allarme Israele in una frontiera che prima era pacifica e riteneva sicura. A torto o a ragione, si sente perennemente minacciato e, quindi, pronto a fare guerra con il nemico di turno.
Anche la Turchia di Erdoğan si sente circondata e ora rischia seriamente l’isolamento internazionale. L’esplosione della miniera di Soma è solo l’ennesima scintilla che ha fatto scoppiare le proteste popolari. Il modello dell’Akp può essere ancora vincente?
Il partito Akp è al potere dal 2002 e nelle elezioni successive, comprese le ultime comunali, ha confermato un consenso da parte di un elettorato altamente fidelizzato. Tuttavia gran parte del mondo politico e della società civile è esausta, soprattutto dei metodi utilizzati dal presidente. Anche le ultime uscite pubbliche, come quella della visita a Soma, sono state devastanti per la sua immagine. Si è visto un Erdoğan arrogante e provocatorio, il che è segno che non si è davanti solo a una deriva autoritaria, ma anche al degrado della personalità stessa del primo ministro, proprio lui che era stato proposto come esempio per i leader delle primavere arabe.
In questo clima di insoddisfazione generale, che cosa prevede per le elezioni presidenziali di agosto?
La candidatura di Erdoğan deve essere ancora confermata. La sua vittoria alle comunali potrebbe essere una spinta a ricandidarsi, ma la deriva di cui abbiamo parlato sopra potrà essere il punto debole, soprattutto perché si tratta delle prime elezioni presidenziali a voto diretto.
Un cambiamento di governo che ripercussioni avrebbe riguardo alla politica estera nei confronti della Siria?
Un cambiamento di governo avrebbe certamente delle ripercussioni anche sulla politica estera della Turchia. Sul fronte siriano la maggioranza della popolazione non ha appoggiato le scelte di politica estera del governo. La Turchia ha fatto un calcolo sbagliato e cioè che Assad fosse alla fine del suo percorso, il che era assolutamente falso. In seguito si è visto come la Siria di Assad, con l’appoggio di Iran e Russia, abbia pian piano riconquistato terreno. Sembra che in quel contesto ci siano solo i sunniti da una parte e Assad dall’altra. Turchia e Occidente non capiscono che il quadro siriano è un po’ più complesso.
Che cosa succede dunque in Siria?
C’è una contrapposizione tradizionale tra sciiti e sunniti, ma spesso si tratta solo di una comoda chiave di interpretazione. In Siria non c’è solo quello. Prima di tutto c’è la crisi generali degli stati della regione, che deriva da un vizio di origine, quello di essere nati come spartizioni coloniali, prima come mandati e poi come stati a seguito degli accordi Sykes-Picot. Il problema si è aggravato con la crisi dei regimi secolaristi, inadatti a gestire le popolazioni di quei territori. C’è una crepa profonda nelle compagini statuali. Bisogna chiedersi che cosa sarà di questi stati, incapaci oramai di contenere le forze centrifughe al loro interno.
A dire il vero non è solo la Siria a trovarsi in questa situazione.
Infatti. Basta pensare all’Iraq che ha al suo interno una minoranza curda che chiede l’autonomia ed è intenzionata a utilizzare le risorse energetiche della sua regione. Un esempio concreto di una spinta all’autodeterminazione. Lo stesso vale per il Libano, altro paese a rischio se non si rafforzano le istituzioni. Anche la guerra in Siria è stata definita una Proxy War, una guerra per procura. Però, in realtà, ci sono dei precedenti, ad esempio l’attacco statunitense all’Iraq di Saddam Hussain, che ha calamitato qui, nella regione, la presenza degli jihadisti. Gli effetti di quella guerra si sentono ancora, e si sentono nella situazione in Siria, perché da lì è partito un certo sviluppo del mondo salafita.
L’Occidente, Stati Uniti in testa, ha avuto un ruolo determinante anche in Libia.
In Libia vediamo, innanzitutto, quello che abbiamo perduto combattendo contro Gheddafi. Francia, Gran Bretagna e, appunto, Stati Uniti hanno deciso l’attacco. Anche l’Italia si è accodata, forse malavoglia, alla decisione di bombardare un paese con il quale poco prima aveva firmato un accordo economico molto importante. L’eredità di quell’operazione è una situazione caotica e contraddittoria.
Haftar dice di voler riportare un po’ di ordine nel paese. Ci crede?
L’ex generale dell’esercito libico Khalifa Haftar ha attaccato, cercando di combatterli, i gruppi islamisti ed è rimasto in una situazione contraddittoria. Il suo attacco ha avuto senza dubbio un forte sostegno popolare ma si scontra con la presenza di un Parlamento in cui islamisti e Fratelli Musulmani sono in maggioranza. Il 25 giugno sono previste le elezioni ed è davvero difficile fare previsioni. La Libia del dopo Gheddafi non è un paese stabilizzato e continua a essere diviso, perché all’attacco militare non è seguito un sostegno alle istituzioni statali. Questo con tutte le conseguenze che comporta, non solo i flussi migratori, ma anche il crollo della produzione petrolifera, che si sta riflettendo sulla situazione difficoltosa delle entrate nelle casse dello stato.
Insomma, il solito film: le grandi potenze fanno le guerre e poi abbandonano i paesi al loro destino.
La Libia è un paese che deve trovare un suo percorso. Gli Stati che hanno voluto l’attacco, inclusi gli Emirati e il Qatar, devono sentirsi responsabili in questa situazione. Una situazione che dimostra che la guerra, se non seguita da un supporto alle istituzioni, crea caos.
Fonte dell'articolo: Spondasud
Submitted by Anonimo on Fri, 30/05/2014 - 15:36