(marzo 13, 2014 Rodolfo Casadei, su Tempi.it) Reportage dalla Siria al terzo anno di guerra civile. La testimonianza di un sopravvissuto alla strage di Adra, dove 80 civili sono stati trucidati perché appartenenti alle minoranze religiose e dipendenti pubblici.
L’11 dicembre dello scorso anno centinaia di ribelli in armi hanno assalito, nelle prime ore della mattina, la cittadina di Adra, un borgo di operai e impiegati 20 chilometri a nord di Damasco. Fino alla sera prima la vita scorreva tranquilla in questa cittadina creata dal nulla all’inizio degli anni Ottanta, per ospitare i dipendenti delle aziende pubbliche della capitale. Migliaia di sfollati da località vicine e lontane investite dai combattimenti avevano trovato rifugio ad Adra, dove alcuni palazzi progettati per accogliere altre famiglie di dipendenti pubblici erano state negli ultimi anni destinati all’ospitalità dei profughi da Douma, Yabroud, Harasta, Nabek, ecc. Secondo numerose ricostruzioni gli assalitori, affiliati principalmente a Jabhat al Nusra e all’Esercito dell’islam (una formazione salafita), avevano liste con nomi di persone da catturare e uccidere e si muovevano alla ricerca di appartenenti alle minoranze etniche e religiose, da sequestrare o da uccidere sul posto: alawiti, cristiani, drusi, ismaeliti, sciiti. Molti giovani uomini sono stati sgozzati e decapitati per le strade della località dopo sommari “processi”, mentre gli addetti al forno pubblico sono stati bruciati vivi dentro alla struttura in quanto dipendenti statali, dunque complici del regime. Stesso destino hanno condiviso gli agenti del posto di polizia e alcuni elementi del personale sanitario dell’ospedale. Le vittime civili uccise in base all’appartenenza religiosa e ai nomi presenti nelle liste sarebbero state circa 80.
Il 30 dicembre 5 mila civili sono riusciti ad abbandonare i quartieri dove erano tenuti in ostaggio, ma la maggior parte degli abitanti è bloccata all’interno della località, dove i combattimenti continuano fino ad oggi, e di molte centinaia non si hanno notizie. Si immagina che siano stati trasferiti a Douma e in altre località controllate dai ribelli, o che siano utilizzati come scudi umani per ritardare la controffensiva delle forze armate.
Selim è uno dei sopravvissuti dell’attacco ad Adra. È un pensionato di una grande vetreria statale, uno dei primi residenti della città satellite creata più di trent’anni fa. È riuscito ad abbandonare l’inferno in cui la località si era trasformata il 30 dicembre, sotto la neve, insieme ad altri 5 mila civili esfiltrati dall’esercito con molte difficoltà. Lo incontro a casa di un parente a Damasco, dove si è trasferito con la moglie e la figlia più giovane dopo la fuga da Adra. Va notato che Selim è un musulmano sunnita, come la totalità dei ribelli che hanno preso d’assalto la sua città e la sua casa. È praticante ma non è integralista: permette a moglie e figlia di vestirsi come vogliono e di non portare il velo in pubblico. Forse in Italia lo definirebbero un musulmano laico. Il suo racconto mette i brividi e getta luce su molti particolari.
«È cominciato tutto la mattina dell’11 dicembre. Mi ero alzato presto per ripetere la lezione di matematica con mia figlia», racconta Selim. «L’atmosfera era strana, perché di solito la gente da noi comincia a muoversi presto la mattina, per raggiungere la capitale evitando le code stradali. Invece quel giorno c’era un gran silenzio, non si sentivano motori di autoveicoli. Mia figlia è uscita di casa per raggiungere la scuola, che si trova poco distante. Dopo pochissimo ho sentito le urla di un’insegnante vicino a casa: “Tornate indietro, la scuola è stata occupata dai ribelli!”. Ali, l’unico alawita del mio palazzo, ha preso l’auto ed è partito a tutto gas come per fuggire. Nel giro di pochissimo l’ho visto tornare indietro, abbandonare l’auto in mezzo alla via e cercare di tornare dentro al palazzo. Ma era troppo tardi: un gruppo di sette ribelli armati e vestiti di nero lo ha circondato e hanno cominciato a urlare. Io vedevo da uno spiraglio della mia finestra, perché dopo che era rientrata in casa mia figlia avevo abbassato quasi completamente la tapparella».
«A un certo punto hanno cominciato a gridare “sei un infedele, sei una alawita!”, e poco dopo le grida sono cessate. Ho scoperto poi che lo avevano sgozzato in quei momenti. Quindi sono entrati dentro al palazzo e hanno cominciato a bussare a tutte le porte per far uscire la gente. Gridavano: “fuori tutti gli alawiti, i cristiani e gli ismaeliti!”. Ma nel nostro palazzo eravamo tutti sunniti, tranne Ali che avevano già ammazzato, e sono rimasti delusi. Ci hanno riunito e ci hanno intimato di scendere nel sotterraneo del palazzo, che è costruito come un rifugio antiaereo. Dopo un’ora e mezzo sono tornati, hanno fatto uscire fuori tutti gli uomini, e ci hanno ordinato di gridare tre volte di seguito “Allahu Akbar!”. A quel punto li ho contati, ed erano diventati circa 90. Ci hanno chiesto di preparargli da mangiare, e noi abbiamo obbedito. Hanno occupato i primi tre piani del palazzo, e ci hanno rimandato nel sotterraneo. Lì alcuni uomini per il nervosismo fumavano. Loro hanno sentito l’odore del tabacco e sono scesi infuriati. Hanno distrutto un narghilè gridando “questo non è permesso dall’islam!”. A me hanno strappato la sigaretta dalla mano dicendomi: “Se ci riprovi, ti tagliamo le dita!”».
«Erano vestiti in vari modi, alcuni all’afghana e alla pakistana, e tutti avevano una fascetta gialla intorno alla fronte con sopra scritto: “Stato islamico”, che è un segno caratteristico di Jabhat al Nusra. Molti quando parlavano rivelavano un accento giordano o saudita».
«Il giorno dopo, alle 9.30, ci hanno fatto uscire dal sotterraneo e ci hanno ordinato di trasferirci in un altro palazzo. “Ma quella non è casa nostra”, abbiamo detto. “Non importa, dovete stare lì”, ci hanno risposto. Il trasferimento è stato un incubo. Per strada ho visto otto cadaveri di giovani uomini con la testa mozzata. Ma quel che è peggio, ci siamo imbattuti in una esecuzione capitale che veniva compiuta proprio in quel momento. Era un ragazzo giovanissimo, con le mani legate dietro la schiena. Non ha opposto nessuna resistenza quando lo hanno fatto inginocchiare e uno gli ha tagliato la gola con un grosso coltello. Gli altri intorno gridavano: “C’è un’unica religione, quella di Maometto! Allahu Akbar!”. Abbiamo visto scorrere un mare di sangue giù dal marciapiede, era una cosa orribile. Per giorni mia figlia non è riuscita più a dormire. A un certo punto abbiamo cercato di cambiare strada, ma da un palazzo hanno cominciato subito a spararci, e hanno ferito una famiglia. Nel palazzo a cui eravamo destinati viveva la famiglia di un nostro amico. Siamo rimasti lì 18 giorni, uscendo poche volte. Continuavano a passare guerriglieri che chiedevano se fra noi c’erano alawiti, cristiani, drusi o ismaeliti. Facevano domande trabocchetto per capire se qualcuno mentiva. A me hanno chiesto quante sono le scuole giuridiche legittimate a interpretare la legge coranica. Io ho risposto correttamente che sono quattro. Allora quello che mi interrogava ha replicato: “pare che ce ne sia una quinta”. Era una trappola: volevano che dicessi che anche gli sciiti sono una scuola giuridica legittimata a interpretare l’islam. Se avessi risposto così mi avrebbero ucciso. Allora ho detto: “io vivrò e morirò solo per le quattro scuole!”».
«Dopo tre giorni trascorsi nel sotterraneo, dove eravamo 134 persone, ci hanno lasciati uscire fuori per andare a prendere gli aiuti che la Mezzaluna Rossa aveva cominciato a distribuire. Siamo arrivati a un posto di blocco, e mi sono accorto che si trattava di ribelli del Libero Esercito siriano (se confermata questa testimonianza sarebbe di eccezionale valore, perché fino ad oggi tutte le ricostruzioni considerano l’attacco di Adra opera di Jabhat al Nusra e di Jayish al Islam, il salafita Esercito dell’islam – ndr). Hanno chiesto le carte di identità per controllare chi eravamo. Avevano una lista di nomi di persone che dovevano catturare, ricordo ancora l’ultimo nome del foglio: Jihad Massud. A me il ribelle ha chiesto “Tu lavori per Assad?”. Non aveva ancora guardato nel mio documento di identità, dove c’è scritto che sono un pensionato. Per fortuna in quel momento sono ripresi i combattimenti, gli ho preso dalle mani il mio documento mentre lui è corso in direzione degli spari. A quel punto siamo tornati tutti indietro e abbiamo rinunciato agli aiuti della Mezzaluna Rossa».
«Dopo qualche giorno ho approfittato di un momento di tregua per andare a vedere in che condizioni era il mio appartamento. Sembrava non esserci nessuno a fare la guardia al palazzo, e sono entrato. Dentro, le porte erano state quasi tutte divelte. In cucina non c’era più niente, avevano portato via tutto, compreso le taniche con decine di litri di olio d’oliva e la bombola del gas. Mentre stavo perlustrando sotto il lavandino per vedere se era rimasto qualcosa, ho sentito una presenza alle mie spalle. Mi sono girato e ho visto tre ribelli, tutti e tre barbuti. Due erano sicuramente stranieri: un giordano e un ceceno. “Che cosa fai qui?”, ha chiesto sospettoso il più vecchio dei tre. “Questa è casa mia, ma è sparito tutto”, ho risposto. “Vai, uomo, Dio ti ricompenserà”, hanno detto loro. Allora li ho salutati: “Dio sia con voi, vi auguro la vittoria!”, e me ne sono andato via in un batter d’occhio».
«Nel sotterraneo del palazzo a cui eravamo stati assegnati la vita scorreva monotona. Un giorno abbiamo recuperato un po’ di riso e abbiamo mangiato insieme. Una giovane donna circassa (una minoranza etnica di origine caucasica presente anche in Siria – ndr), madre di un neonato, è salita in un appartamento per lavare un po’ dei piatti che avevamo usato. Indossava pantaloni e una maglietta, e non avendo a disposizione un velo con cui coprirsi la testa, si è messa un asciugamano. Tutte le donne, da quando eravamo ostaggi dei ribelli, si erano messe il velo anche se non erano abituate a portarlo: è il caso di mia moglie e di mia figlia. Lungo le scale ha incrociato due guerriglieri, che l’hanno guardata male. Sul momento non è successo niente, ma il giorno dopo sono venuti da noi due ribelli di Jabhat al Nusra, armati con una grossa scimitarra. Ci hanno chiesto: “Dov’è la ragazza con gli occhi verdi?”. Parlavano della giovane mamma circassa, che era nascosta in fondo a un angolo del sotterraneo. “Non è di qui, sta in un altro palazzo, non sappiamo dove”, gli abbiamo risposto. Si sono arrabbiati. “Una donna non può andare in giro vestita a quel modo! Se è sposata uccideremo suo marito che ha permesso questo, se non è sposata uccideremo suo padre! Deve coprirsi tutta se vuole andare in giro da sola!”. Non hanno ispezionato il sotterraneo, e così la ragazza si è salvata. Ma per lo spavento ha perso completamente il latte, e da allora ha nutrito il bebè con l’amido del riso bollito».
«Un giorno ho assistito all’incontro fra uno dei miei figli maschi e un suo amico, che lo credeva morto. È stato molto commovente, ma a un certo punto il ragazzo si è rivolto a me e mi ha detto: “Per colpa tuta ho preso un sacco di botte!”. Ho chiesto spiegazioni. “Mi hanno fermato e mi hanno interrogato su alcune persone che vivono qui da noi. Mi hanno fatto il tuo nome e mi hanno chiesto di confermare che lavori per il governo. Io rispondevo che non era vero, e loro mi picchiavano. Insistevano perché ammettessi che eri un agente del governo, io smentivo e loro mi picchiavano”. Mi sono spaventato a morte. Da quel giorno ho cercato l’occasione per fuggire da Adra».
«Il 30 dicembre, alle 5 di mattina mentre scendevano fiocchi di neve, siamo usciti dai palazzi e ci siamo messi sulla strada per uscire da Adra. Eravamo migliaia di persone. Non abbiamo preso la strada principale, ma quella che passa da dietro. I ribelli ci hanno visto dalle loro postazioni, e hanno cominciato a gridare: “Tornate indietro! L’esercito vi sparerà addosso!”. Noi continuavamo ad avanzare. Allora hanno cominciato a sparare su di noi dall’alto dei palazzi, e hanno colpito alcune persone. Hanno sparato anche verso le postazioni dell’esercito, per causare la loro reazione e fare in modo che noi ci trovassimo fra i due fuochi. Quando eravamo quasi fuori dall’abitato, hanno cominciato a tirare su di noi da una stazione di servizio. Ho visto cadere fulminati una donna e un giovane. Nonostante questo, siamo andati avanti e abbiamo raggiunto il terrapieno dietro al quale si trovavano gli uomini dell’esercito. Eravamo tantissimi, i veicoli per trasportarci non bastavano. Hanno fatto venire degli autobus, ma alcuni di noi sono montati sugli autoblindo e dentro ai carri armati. Ci hanno trasferito presso un cementificio, e lì ci hanno registrati. Alcuni che erano fra noi sono stati arrestati: li hanno riconosciuti come ribelli che si erano infiltrati fra noi per attaccare meglio l’esercito».
Quando si chiede a Selim come facessero i ribelli ad avere liste di nomi accurate, la spiegazione lascia allibiti. «Abbiamo capito dopo che per mesi erano state raccolte informazioni su di noi. Ad Adra vivono ormai molti sfollati di altre località, soprattutto di Douma, che è controllata da molto tempo dai ribelli. Arrivava il lattaio a domicilio, che è di Douma, e chiedeva a mia moglie: “Chi sono i vostri vicini?”. In un negozio della mia zona, gestito da gente di Douma, il gestore chiedeva ai clienti che non sembravano sunniti: “Tu dove abiti? Posso avere il tuo numero di telefono?”».
Adesso Selim vive a Damasco e sfoga tutta la sua amarezza: «Che cos’è ormai la mia vita? Accompagnare mia figlia all’università e andarla a prendere all’uscita dalla lezione, per proteggerla lungo il percorso. Perché lei non porta il velo islamico, potrebbero prenderla per una alawita o una cristiana e attaccarla o rapirla. E comunque possiamo morire in qualunque momento per un colpo di mortaio o per un’autobomba! Spero che lei scriva tutto quello che le ho detto, perché è la verità. Noi qui stiamo soffrendo a causa dell’Arabia Saudita, del Qatar, della Turchia e dell’Occidente. Non c’è democrazia né libertà in questa primavera araba. È tutta un uccidere, uno sgozzare, un distruggere la civiltà di cui eravamo fieri, che è anche cristiana. Io sono musulmano, ma quando andavo a Baab el Touma (quartiere cristiano di Damasco- ndr) capivo quello che il cristianesimo aveva portato in dote alla Siria, riconoscevo la civiltà cristiana. Un tempo vivevamo insieme, non c’era separazione fra noi».
Submitted by Anonimo on Fri, 14/03/2014 - 10:36