Puntare sulla vittoria militare dei ribelli appoggiati dagli jihadisti internazionalisti come soluzione alla crisi, come fanno gli “Amici della Siria”, è incoscienza o cinismo.
Damasco. Non possiamo dirvi il suo vero nome, né mostrarvi il suo volto incantevole. Perché troppa pubblicità sulla sua storia attirerebbe l’attenzione dei ribelli, alcuni dei quali sicuramente minaccerebbero di morte lui e la sua famiglia. Omar, chiamiamolo così, è un ragazzo palestinese di 15 anni del campo profughi di Yarmuk, alle porte di Damasco. Un pomeriggio tornava dalla moschea dopo la preghiera, si è separato dal gruppo dei compagni per imboccare la strada verso casa sua, lasciandosi sulla destra il checkpoint dell’esercito. Sono partiti una serie di colpi dall’arma di un cecchino nascosto da qualche parte frontalmente a lui. Tre lo hanno trafitto all’addome. Miracolosamente è sopravvissuto, e ora cerca di riprendersi nel reparto di chirurgia dell’ospedale Mushthaid di Damasco. Omar racconta che negli ultimi tre mesi i cecchini, appartenenti a qualcuno dei numerosi gruppi antigovernativi che si sono infiltrati nel campo (i campi profughi palestinesi in Siria sono veri e propri quartieri urbani), hanno cominciato a sparare anche alle donne e ai bambini. Omar ha perso in poche settimane quattro amici, suoi coetanei, falciati da armi di precisione, mentre altri 30 minorenni sono rimasti feriti nello stesso modo. Fra loro anche un bambino di 9 anni al quale i medici hanno dovuto amputare una gamba. «All’inizio sparavano solo agli uomini, poi hanno cominciato a tirare anche alle donne e ai ragazzi», racconta. Luminosi occhi neri, labbra tumide ancor più grandi per contrasto a un corpo dagli arti lunghi e sottili, una grazia quasi femminea, Omar sembra l’incarnazione della delicatezza e della bellezza che non abbandonano l’umanità nemmeno nell’ora dei crimini più atroci.
AMICI DI QUALE SIRIA. Il suo volto e la sua storia ci sono venuti in mente settimana scorsa, quando abbiamo letto il comunicato stampa trionfalistico con cui la Farnesina ha dato conto dei risultati della riunione a Roma dei cosiddetti “Amici della Siria”, che sarebbero poi i paesi che appoggiano, alcuni politicamente e altri anche militarmente, i ribelli della Coalizione nazionale siriana. Fra le dichiarazioni che i ministri degli Esteri degli undici paesi partecipanti hanno sottoscritto, c’è quella secondo cui «Il regime deve porre un termine immediato ai bombardamenti indiscriminati contro le aree popolate perché si tratta di crimini contro l’umanità e non possono rimanere impuniti». Se sparare colpi di artiglieria contro quartieri infestati di ribelli senza preoccuparsi della presenza dei civili che li abitano è un crimine contro l’umanità, “cecchinare” ripetutamente donne e bambini solo perché risiedono nella parte “sbagliata” del quartiere, che cos’è?
ORECCHIE MOZZATE. Le atrocità nella guerra civile siriana non stanno tutte da una parte sola. Cercare di farlo credere da parte del nostro e di altri governi equivale a manipolare l’opinione pubblica e a offendere l’intelligenza dei cittadini. Fatti come il massacro di donne e bambini a Houla da parte di forze paramilitari, l’eccidio di persone in fila al forno di Hama, l’arresto e la detenzione in condizioni tremende di migliaia di oppositori veri o presunti, l’uso dell’artiglieria, dei cacciabombardieri e di missili terra-terra in condizioni nelle quali la sicurezza dei civili presenti nelle aree interessate dalle operazioni militari non viene presa minimamente in considerazione, sono atti e decisioni che pesano come macigni sulla coscienza e sulla credibilità delle forze governative. Ma immaginare che dall’altra parte della barricata viga un grande senso di umanità, è la fantasia di qualcuno che o ci è, o ci fa. In Occidente ha avuto molta eco il filmato in cui si vedono soldati dell’esercito siriano tagliare le orecchie ai cadaveri dei ribelli caduti in combattimento e mostrarle a una telecamera; meno nota è la storia di una battaglia nella regione dell’Idlib, terminata con la cattura di alcune decine di soldati da parte di ribelli salafiti; questi ultimi, prima di passare i loro prigionieri per le armi, hanno provveduto a mozzare loro le orecchie da vivi. In questo momento all’ospedale di Qamishli, nel nord-est della Siria, sono ricoverati soldati che hanno avuto la vita risparmiata dopo essere stati catturati dai ribelli, i quali però prima di liberarli hanno inflitto loro crudeli tormenti: hanno tagliato dita delle mani e orecchie, perché non siano più in grado di combattere.
MENTIRE SULLA FEDE PER VIVERE. Chi avesse letto il reportage che Le Monde dedicò qualche tempo fa alla presa dell’accademia militare di Aleppo da parte dei ribelli, troverà senz’altro la cronaca della disintegrazione confessionale e settaria dell’iniziale unità fra ufficiali e cadetti, provenienti da tutte le etnie e religioni della Siria, man mano che l’esito infausto dell’assedio si approssimava. Ma troverà anche la storia dei genitori e parenti di un ribelle caduto nell’assalto che si recano in auto al campo dei soldati fatti prigionieri, si fanno consegnare un cadetto alawita scelto a caso e lo trasportano legato dentro al bagagliaio della loro auto. Giunti a casa lo estraggono dal vano e, per compiere la loro vendetta, a turno sparano sul loro ostaggio inerme, finchè muore. Molte immagini di prigionieri delle forze armate siriane uccisi a sangue freddo dai ribelli, in particolare da quelli di Jasbat Nusra ma non solo, si trovano in video caricati su Youtube. Per esempio nel video intitolato “Syria: Jihadists torture, kill prisoners in Ras Al Ayn” si vede un guerrigliero che tiene sotto la minaccia della sua arma dieci uomini sdraiati ventre a terra, fra i quali dei feriti. Alcuni di essi implorano di aver salva la vita dichiarando di essere musulmani sunniti, come i loro aguzzini. Dopo tre minuti di suppliche il combattente scarica il suo kalashnikov sui prigionieri sdraiati, e non si sentono più voci. Naturalmente si possono trovare anche filmati di forze pro regime che compiono atti di brutalità simili. La verità essendo che la guerra in Siria diventa ogni giorno più spietata e gli uomini sempre più crudeli.
ATTENTATI E RAPIMENTI. La parzialità di fronte ai crimini di guerra e alle sofferenze dei civili non è l’unica cosa da rimproverare agli “Amici della Siria”. Una dichiarazione come quella rilasciata a Roma da Moaz al-Khatib, il presidente della Coalizione nazionale siriana, non può essere passata sotto un silenzio complice: «Guardate al sangue dei bambini siriani, che ora è mescolato al pane dei forni bombardati, invece che alla lunghezza della barba dei combattenti ribelli». Il problema che al-Khatib snobba eccessivamente sono le cattive abitudini dei «combattenti dalla barba lunga». I quali non si limitano a passare per le armi i prigionieri disarmati. Ma si ingegnano di far esplodere autobombe in zone densamente abitate, addirittura col rinforzo di una seconda autobomba destinata a rendere più raccapricciante la strage, che giunge sul luogo della prima esplosione quando si è raccolto un assembramento di soccorritori: è quello che è successo a Jaramana (novembre 2012, 50 morti) e che non è successo per un soffio a Damasco il 21 febbraio scorso (52 morti comunque). E si dedicano pure a rapimenti effettuati sulla base della fede religiosa, sequestrando sacerdoti cristiani e altro personale ecclesiastico per il cui rilascio pretendono poi esosi riscatti. Le parole di al-Khatib non sono quelle di un leader all’altezza della situazione: possono scivolare come acqua sui sassi alle orecchie degli occidentali, ma sono causa di sconforto e prostrazione per una quota importante della popolazione siriana, che conosce sulla propria pelle quotidianamente le controindicazioni del contatto con le milizie jihadiste e salafite, non compensate a sufficienza dalle distribuzioni gratuite di alimenti per accattivarsi la simpatia popolare. E nemmeno dal pagamento di veri e propri stipendi ai siriani che si arruolano a combattere con loro (non ce lo inventiamo noi, lo ammette persino al-Arabiya, tivù saudita che fa il tifo per i ribelli).
POPOLAZIONE ESAUSTA. Qui si introduce un altro tema delicato e poco compreso, quello delle lealtà politiche dei siriani. I risultati delle elezioni organizzate in passato dal regime sono evidentemente inattendibili: nessuno può credere che Bashar el-Assad goda del 97 per cento dei consensi, come attestarono le elezioni presidenziali del 2007. Ma che oggi la maggioranza dei siriani gli sia contraria, è tutto da dimostrare. La popolazione è innanzitutto esausta, dopo venti mesi di combattimenti che hanno prodotto lutti, distruzioni, 800 mila profughi all’estero e 2 milioni di sfollati interni. In un certo senso, accetterebbe qualunque soluzione pur di tornare a vivere normalmente. Se fosse chiamata alle urne domani mattina probabilmente si spaccherebbe a metà, ma concedendo ancora un leggero vantaggio al presidente uscente. L’opposizione può contare su tutti coloro che hanno patito ingiustizie a causa del sistema a partito unico che per cinquant’anni ha retto il paese e che ha alimentato l’immunità di pubblici ufficiali civili e militari che hanno abusato del loro potere incontrastato; può contare anche sul fatto che il 60 per cento dei siriani è costituito da musulmani sunniti arabi, mentre la presidenza della repubblica, gli alti gradi delle forze armate e i gangli chiave dei servizi di sicurezza sono appannaggio della minoranza alawita (l’11 per cento della popolazione).
SUNNITI E ALAWITI. Ma quest’ultimo argomento conta solo fino a un certo punto ed è a doppio taglio. Conta solo fino a un certo punto perché il regime ha sì collocato esponenti alawiti in posizione egemonica nelle forze armate e nei servizi di sicurezza, ma in tutti gli altri ruoli della funzione pubblica ha praticato una politica di unità nazionale che fa sì che insegnanti, impiegati statali, addetti alla sanità pubblica, eccetera, provengano da tutte le religioni ed etnie del paese senza discriminazione alcuna; delle riforme liberiste dell’economia attuate dopo il 2000 da Bashar el-Assad, subentrato al padre Hafez, hanno beneficiato soprattutto i ceti urbani commerciali e imprenditoriali, entro i quali i sunniti sono ampiamente rappresentati. Non è un caso che nei centri governativi per l’assistenza ai profughi che fuggono i combattimenti i sunniti siano particolarmente numerosi.
PERCHE’ ASSAD DURA. È a doppio taglio perché il revanscismo sunnita che molti percepiscono nella Coalizione nazionale siriana – che pure si presenta come un fronte di unità nazionale – e che appare in filigrana nei programmi di Fratelli Musulmani, salafiti e jihadisti avversari dell’attuale governo, è forse il più potente fattore di coesione del fronte filo-governativo. Alawiti e sciiti (insieme il 13 per cento della popolazione) combattono spalle al muro, nella certezza che in caso di sconfitta per loro non ci sarà alcuna pietà; cristiani e drusi (un altro 13 per cento della popolazione) meditano la fuga dal paese, temendo che un nuovo governo di tendenza più o meno islamista non garantirà loro la dignità e il rispetto di cui finora hanno goduto; i curdi (9 per cento della popolazione) sia in caso di sopravvivenza del regime sia della sua caduta non accetteranno un sistema in cui la loro autonomia non sia finalmente riconosciuta.
DOVE INIZIA LA SALVEZZA. In una situazione del genere, puntare sulla vittoria militare della Coalizione nazionale siriana che non può avvenire senza l’indispensabile supporto dei combattenti jihadisti internazionalisti come soluzione alla crisi, come stanno facendo gli “Amici della Siria”, è pura incoscienza, oppure è cinismo travestito di ideali democratici. La salvezza per la Siria sta soltanto in un vero negoziato fra le parti, e questo può avvenire solo riprendendo i tentativi di mediazione che in passato sono stati condotti da Kofi Annan e da Lakhdar Brahimi. Bisogna convincere la Coalizione nazionale siriana a rinunciare alla sua richiesta che il presidente Assad non si presenti alle elezioni previste per il 2014 e convincere il presidente Assad ad accettare che le elezioni siano organizzate e supervisionate dalla comunità internazionale. Ma prima di tutto questo, è necessaria e indispensabile una tregua che permetta ai siriani di ritornare a sperare e a vivere secondo un sembiante di normalità. Solo un po’ di pace adesso può permettere di sperare in una pace reale a medio termine.
Submitted by Anonimo on Mon, 10/02/2014 - 08:36