Siria, decine di cooperanti italiani entrano nella zona dei ribelli.


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(Repubblica.it) Il rapimento delle due volontarie italiane ad Aleppo punta il faro sulla situazione nei territori in mano all’opposizione anti-Assad. Dove gruppi di attivisti italiani continuano a entrare tra mille rischi per distribuire aiuti, mentre le grandi ong non sono più presenti per i troppi pericoli.

C'È UNA FRONTIERA, un confine che è geografico ma anche geopolitico. E' un confine dove i rischi di moltiplicano. E' un confine oltre il quale però c'è infinito bisogno di aiuto. È quello della Siria controllata dai ribelli anti-Assad, e dove le azioni del volontariato internazionale e anche italiano faticano ad arrivare.


Il rapimento di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti del progetto Horryaty, costringono a puntare nuovamente il faro sulle attività delle ong e delle onlus IN quest'area martoriata di Medio Oriente. La Siria da anni è spaccata in due, da una parte l'esercito regolare di Damasco, dall'altra una zona di nessuno in cui combattono decine di sigle, molte composte da jihadisti, e dove assume sempre più forza lo Stato islamico di al-Baghdadi. Un'area dove i rischi, come detto, sono immensi. E infatti nella zona anti-Assad tutte le grandi ong italiane hanno lasciato l’area, concentrandosi sui rifugiati nei paesi confinanti; Medici Senza Frontiere, per esempio, lo ha fatto a gennaio, dopo il sequestro di cinque internazionali del suo staff. 

Ma piccoli gruppi di volontari italiani, come hanno fatto Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite durante la loro terza missione, continuano invece a passare il confine. Dall’inizio della guerra, in Italia vari attivisti hanno fondato associazioni per raccogliere fondi e aiuti che vengono portati in Turchia con camion, ambulanze o come extrabagaglio nelle stive degli aerei. Da Kilis, si passa poi in Siria. Nella terra di nessuno. 

Dal Trentino alla periferia di Aleppo. “Come onlus siamo nati ad aprile, ma entriamo in territorio siriano da più di un anno. In gruppi di 4-5 persone passiamo il confine e distribuiamo medicine, cibo e materiale didattico”. Così Feras Garabaway, di origine palestinese, spiega come insieme ad alcuni amici italiani ha fondato Speranza – Hope for Children con sede ad Arco, in Trentino. Finanziano cinque scuole per 650 bambini nella campagne a nord di Aleppo e una clinica pediatrica nel campo per 16mila sfollati di Bab al Salam, ultime lande siriane prima della frontiera turca, dove maggio un autobomba ha fatto 43 vittime. Qui ci lavora un ex primario di Aleppo che nel solo mese di luglio ha curato 789 bambini. Continua Feras: “All’inizio della guerra era più facile, ora le tensioni tra le diverse fazioni e la presenza degli estremisti rendono tutto più difficile”.  

Tra giubbotti antiproiettili e teste abbassate. “Cerchiamo – spiega la modenese Elisa Fangareggi di Time for Life – di evitare di rimanere in Siria di notte, quando si brancola nel buio. Facciamo base in Turchia con spedizioni quotidiane oltreconfine per distribuire farmaci, latte, cibo e, d’inverno, sacchi a pelo e giacconi. Tutti indossiamo giubbotti antiproiettili, noi donne anche il velo e sui furgoni capita che le guide ci dicano di abbassare la testa per nasconderci”. Time for Life organizza una spedizione ogni quindici giorni e a luglio è riuscita anche a far entrare legalmente in Italia la famiglia di Gais, un neonato di Aleppo affetto da leucemia, ora ricoverato al Bambino Gesù di Roma.


L’attivismo degli italosiriani. Onsur Italia, che in arabo vuol dire “sostieni”, ha dall’inizio del conflitto portato in Siria 44 ambulanze, l’ultima a luglio, grazie all’impegno di molti italo-siriani e dei loro sostenitori italiani. Spiega Asmae Dachan, figlia dell’ex presidente Ucoii Nour Dachan: “Le compriamo in Italia, le riempiamo di medicinali e materiale ludico-didattico e le guidiamo fino in Siria, dove le consegniamo agli ospedali da campo, dato che quelli normali sono stati tutti distrutti. In ogni missione, 8-10 persone si fermano 2-3 giorni nel territorio controllato dall’opposizione. Certo, conosciamo i pericoli dei cecchini, dei bombardamenti e dei terroristi dell’Isis; abbiamo visto morire gente davanti ai nostri occhi”. 

Alle missioni di Onsur partecipano anche i volontari (dottori, farmacisti, studenti di medicina) dell’Ossmei, l’Organizzazione siriana dei servizi medici e di emergenza in Italia, con cui collabora anche l’onlus Un cuore in Siria, che a sua volta raccoglie medicinali insieme ai Dehoiani e al Banco farmaceutico.

Altre associazioni nei territori in mano ai ribelli. Ma le associazioni che entrano in Siria non finiscono qui. Ci sono i volontari dell’Islamic Relief, ong internazionale che dalla sede di Milano organizza due missioni all’anno, e gli italosiriani di Insieme per la Siria Libera che inviano container pieni di pacchi alimentari e vestiario. Racconta il suo presidente Anas Breighece, italiano di seconda generazione di Massa Carrara: “Alcuni dei nostri contatti locali, che in questi mesi ci hanno accompagnato, sono morti”. 

Da aprile, invece, l’onlus friulana @uxilia ha sospeso gli ingressi: “Continuiamo però – spiega Marta Vuch – a sostenere la scuola del campo profughi di Atma e alcuni centri di primo soccorso attraverso la Maram Foundation e un’associazione locale”. Anche We are, dopo un accordo con la Mezzaluna Rossa, ha interrotto l’invio di volontari italiani, che ora si fermano a Kilis, al confine turco. Un’eccezione il mese scorso, quando l’associazione ha fornito al centro medico di Azaz una sala parto: serviva mostrare come utilizzarla e un’ostetrica italiana è entrata in Siria per una mezza giornata di training.

E nel territorio controllato da Assad? Dall’inizio del conflitto, il Centro italo-arabo Assadakah, con buoni contatti con il governo di Assad, ha svolto 84 missioni. Spiega Raimondo Schiavone, presidente della sezione Sardegna: “Tutte si sono svolte con regolare permesso del governo siriano; abbiamo organizzato incontri politici, accompagnato giornalisti e talvolta distribuito cibo, in particolare a Yarmouk, il campo profughi palestinese di Damasco”. Ma, soprattutto, in questa zona è presente in modo continuativo Terre des Hommes, a Latakia e Tartus, due città che si affacciano sul Mediterraneo e i cui abitanti sono passati da 100mila a 500 e 400mila a causa degli sfollati interni.

Terre des Hommes tra gli sfollati interni. “A Latakia – racconta Bruno Neri – vivono nello stadio e in un parco comunale”. Nelle due città e ad al-Sweida, l’ong italiana ha tre centri di supporto psicologico e ricreativo per minori, mentre nella zona fuori Damasco, dove è più alto il numero di profughi, distribuisce il latte, che manca alle madri per malnutrizione e traumi, vestiti e prodotti igienici: l’obiettivo è arrivare presto a 15mila famiglie prese in carico nella zona di Iblit, tra Latakia e Aleppo. “Rispetto a sei mesi fa, la situazione è più tranquilla e come pericolosità non è paragonabile alla zona in mano ai ribelli”, continua Neri, “ma strade interrotte, check point continui e il pericolo di attacchi fuori dalle città rimangono una costante”. Le attività sono svolte con personale locale, formato con training a Beirut e ad Amman, ma risiede in Siria anche una cooperante italiana: “Ora è momentaneamente in Italia, ma a fine mese dovrebbe avere il permesso di rientrare”, spiega Neri.

Religiosi italiani. Sempre nella zona controllata dal governo, ci sono dei connazionali tra i religiosi: tra le Figlie di Maria Ausiliatrice, ci sono 6 suore che prestano servizio presso l’ospedale italiano e tra i salesiani due sacerdoti. Don Luciano Buratti, 62 anni, vive da solo in montagna a Kafroun, dove da due anni ha aperto la casa salesiana agli sfollati e continua a gestire un centro giovanile. Don Felice Cantele, 79 anni, svolge invece il suo ministero a Damasco come cappellano all’ospedale e assistente in oratorio. “Schegge di mortaio sono arrivate in tutti i nostri centri, un ragazzo che frequentava il catechismo presso la nostra casa madre ad Aleppo è morto poco tempo fa”, racconta il superiore don Munir Al Rai, “ma continuiamo le nostre attività, anche grazie al sostegno del Vis, della Caritas, di tante parrocchie e privati”.

La posizione della Farnesina. Da mesi, dal Ministero degli Esteri non autorizzano più gli italiani a passare la frontiera turca. Per quanto riguarda la presenza di ong italiane riconosciute dalla Legge sulla cooperazione, alla Farnesina risultano solo Terre des Hommes, Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, Cosv, Non c’è Pace Senza Giustizia e AiBi. La cooperazione italiana ha finanziato due progetti: uno terminato nel giugno 2013 con Terre des Hommes e un altro, sempre con TdH e il Jesuit Refugee Service, concluso nel luglio 2014. 

Tuttavia, precisa la Farnesina, “in questi interventi non è mai prevista la presenza di personale espatriato e, nei progetti appena conclusi, le due onlus hanno operato con personale esclusivamente siriano”.

di STEFANO PASTA




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