Esperienza indimenticabile la visita al campo profughi di Abou Shok. Non ci sono le masse di profughi sbandierate dalle associazioni umanitarie, come annunciatoci dal Governatore le persone stanno rientrando alle loro case d’origine. Anche se appare con chiarezza che non tutti hanno questa intenzione, numerose sono le abitazioni che non sono affatto di fortuna ma manifestano l’intenzione di stabilizzarsi in quel luogo. I profughi sono stati messi davanti a una scelta, tornare in montagna a Tawila, Si, Fata, Tabarnu, Dar Al Salam, da dove provengono o scegliere di stare vicino alla città. Una scelta non facile specie per chi dopo anni ha individuato in quell’area nuovi mercati per i propri prodotti. Le persone presenti, infatti, sono quasi tutti allevatori e agricoltori trasferitisi al campo a seguito della guerra e delle lotte tribali degli ultimi anni.
Una parte del campo si è trasformata in un vero e proprio mercato, si vende di tutto, dalle spezie alla carne, frutta, verdura, ortaggi. Un mercato interno piuttosto movimentato, siamo lì proprio nell’ora degli acquisti della mattina, tante donne che vengono e comprano.
L’immagine del campo è quella di un insediamento che pur nella sua palese povertà appare strutturato con una viabilità geometrica e con principi urbanistici di un centro abitato razionale e organizzato. Che non sfigura se confrontato con il mercato centrale della vicina città di Al Fasher. Non vediamo bambini in giro per il campo, sono nelle scuole. Ne visitiamo due, una maschile ed una femminile. L’accoglienza è quella della grande festa, bambini ordinati, composti seguono le lezioni. Le aule sono delle capanne poste in circolo intorno ad un piazzale dove presumibilmente si svolgono le attività ricreative. Alcune aule sono dotate di piccoli banchi, in altre, quelle frequentate dai più piccoli, i bambini sono seduti per terra in file ordinate e perfettamente geometriche. Ognuno di loro ha una piccola borsa con dentro i quaderni, le matite e i materiali necessari per le lezioni e i compiti. Un mini kit che confrontato con i giganteschi borsoni che i nostri bambini portano a scuola fa sorgere un sorriso e anche la consapevolezza che forse tutte e due le esperienze sono piuttosto estreme. Da un lato la scarsità di mezzi, dall’altro l’opulenza e l’esagerazione del consumismo sfrenato.
Pochi di loro conoscono qualche parola d’inglese, sono entusiasti per la presenza della videocamera e della macchina fotografica. La meraviglia è quella propria di tutti i bambini, forse percepita meno in quelli occidentali, più abituati alla tecnologia che ormai è diventata prevalente rispetto alla quotidianità. I professori sono disponibili a farci visitare la scuola, un’esperienza unica, l’espressività degli occhi di quei bambini trasmette sensazioni talmente forti che nessuna delle immagini viste sui nostri media può essere paragonabile. Quegli occhi non chiedono ne pietà ne compassione, trasmettono gioia. Quei bimbi, nella loro povertà, non hanno consapevolezza del loro stato di difficoltà che invece appare ai nostri occhi. Stato che a noi appare mortificante ma per loro è la vita, la loro vita, quella che conoscono.
La scuola femminile ha 370 alunni, quella maschile 830, sono molto simili fra loro nella conformazione organizzativa e strutturale, realizzate con gli stessi materiali. Nel campo ci sono circa venti scuole al servizio di 52.000 abitanti. Ormai il campo è una città, un enorme suk dove molti arrivano per vendere le proprie merci prodotte in campi lontani anche cento chilometri. Nessuna presenza di organizzazioni di volontariato, niente Nazioni Unite, nel campo si vedono solo sudanesi. Un grande cartello con i classici loghi dell’Unicef e di altre organizzazioni emerge davanti a un pozzo, è l’unico segno di presenza esterna che noi percepiamo.
L’immensa dolcezza dei bambini del campo ad un certo punto si trasforma in una frase di rabbia di una di loro che guardandoci e pensando fossimo inglesi pronuncia nei nostri confronti delle brutte frasi, si legge rabbia nei suoi occhi che si placa solo dopo che capisce la nostra nazionalità. Certo qui gli inglesi non hanno lasciato un buon ricordo e la memoria di quella bambina trasmette un sentimento che non è proprio ma che gli è stato trasmesso dai grandi, da coloro che hanno altri occhi per vedere e che hanno visto cose inaudite in questo piccolo fazzoletto al centro dell’immenso continente africano.
La polvere della sabbia, elemento prevalente nel campo, non riesce a coprire le profonde ferite lasciate dalla storia.
r.s.
Inviato da Anonimo il Gio, 02/02/2012 - 08:19