Unione Sarda. A Beirut è tornata la paura


tumblr_inline_mrntirEhWm1qz4rgpPubblicato su L’Unione Sarda il 17 agosto 2013

La tensione arriva fino a Baalbek, valle della Bekaa, est del Libano. Sono le 5 del mattino. Davanti alle rovine romane una jeep perquisisce tutti coloro che salgono sul bus che porta a Beirut. Sono gentili, si scusano gli agenti di sicurezza del partito Hezbollah, forza politica e militare dominante nella regione. “È per via della bomba”, dicono. Lungo i tornanti che risalgono la catena del Monte Libano si arrampicano con fatica lunghi convogli dell’esercito libanese.

Nella periferia meridionale della capitale, dove ieri un’autobomba rivendicata sul web dal gruppo jihadista sunnita Aysha Umm-al Mouemeneen  ha causato la morte di 24 persone e il ferimento di 300, il bus viene fermato per un breve controllo da altri agenti del partito di Dio, chiaro obiettivo dell’attentato. “Un messaggio per Nasrallah”, il leader di Hezbollah, affermava  ieri uno dei miliziani apparsi nel video. Come nel nord, a Tripoli, le strade del Libano sono lo specchio insanguinato delle vicende globali. Da una parte il blocco costituito da sunniti, Libero Esercito Siriano, Europa, USA, Qatar e Arabia Saudita.  Dall’altra sciiti e alawiti, Assad, l’Ira, Cina Russia e Hezbollah. E la Jihad, sempre più forte e solitaria nei diversi teatri. La religione giustifica le trame geopolitiche di un nuovo bipolarismo. Sullo sfondo i confini rettilinei e violenti imposti dal vecchio colonialismo europeo.

Il quartiere a maggioranza sciita di Bir el-Abed, in corrispondenza dei caseggiati di Roueiss, dove l’esplosione ha avuto luogo alle 18.25 di ieri sera, è blindato. Sono le 9. Ai giornalisti verrà dato accesso soltanto alle 12.

L’ospedale Bahmam, situato a poche centinaia di metri dal luogo dell’attentato, ha accolto fin dalla serata di ieri decine di persone. Molte sono state dimesse. 18 vengono tenute sotto osservazione. Una è deceduta. Jad Slaiman, sette anni, siede dritto sul letto e fa il segno della vittoria per la fotocamera. Il piede destro è fasciato. Completamente aperto, gesticola la madre.  Il padre Sawad gli sta accanto, accucciato. “Stava giocando nella sua stanza al secondo piano”, racconta la giovane maestra Amarl Amhaz, accorsa in visita. “Poi i vetri sono esplosi. Si è svegliato in ospedale”. Il padre Sawad ride, cerca di scherzare. “Sono furioso, e triste”, racconta fuori dalla stanza. Alijal Saluan, 16 anni, è in terapia intensiva. Lo scoppio gli ha ustionato tutta la parte sinistra del corpo. Si trova in stato di coma. “Stavo passando in macchina quando tutto è andato in frantumi, intorno”, racconta Mohammed Dar, 49 anni, soldato. Le braccia sono  dilaniate dalle schegge. La vecchia madre scoppia in lacrime durante un’intervista. Rimane a singhiozzare fuori dalla stanza.

Fuori dall’ospedale veniamo perquisiti per la terza volta. L’agente di sicurezza indica la strada per tornare a Roueiss. L’esitazione sulla direzione da prendere costa cara. Veniamo avvicinati dal gestore di una piccola pizzeria. Dobbiamo prendere posto. Sono le 10.15. I documenti passano di mano in mano. La borsa  è perquisita più volte. Veniamo scortati verso una seggiola, in un viottolo discosto, uno dei tanti punti d’osservazione per la sicurezza spontanea della comunità di Hezbollah. Si alternano i secondini. Montiamo sopra uno scooter, diretti verso Roueiss. A 20 metri dai caseggiati un ampio edificio raccoglie ciò che appare come il quartier generale d’emergenza. I documenti spariscono dentro un piccolo ufficio. Almeno altri venti sospettati sono tenuti sotto osservazione in un angolo, seduti, rivolti verso il muro. Un grande ventilatore li salva dalla canicola opprimente. Un giovane occhialuto legge il corano. Uno per volta saranno interrogati da un agente, dietro una cattedra. A poche centinaia di metri echeggia una raffica di mitra. Prosegue. Impossibile verificarne la natura. Il vociare si fa convulso.  Alcuni miliziani imbracciano il kalashnikov e varcano di corsa il cancello. Fuori gli abitanti del quartiere affrettano il passo. Un elicottero disegna cerchi sopra Bir el- Abed. Sono le 12.15 quando i documenti ricompaiono. “Ci scusi, sicuramente capisce la situazione”, dice l’ufficiale riconsegnandoci i documenti. Sono le 12.15.

L’esplosione ha sventrato due palazzi, simmetricamente, sui lati opposti dell’angusta Rouiss. “Uno era stato ricostruito dopo il bombardamento israeliano del 2006”, racconta Alì, 17 anni, studente. Un tappeto di schegge di vetro, detriti e rifiuti si stende sull’asfalto. Lungo i marciapiedi si susseguono le carcasse contorte delle automobili.  Nessuno rilascia interviste ad una voce straniera. Vengono offerte sigarette e croissant, in cambio. Una donna con gli occhi cerchiati di rosso indica se stessa e un balcone, al terzo piano. Davanti alle telecamere un vecchio si abbandona alla rabbia. “Israeli” è l’unica parola che è possibile capire. Varcano le barriere di sicurezza alcuni feriti lievi, di ritorno dagli ospedali. Ovunque i berretti rossi dell’esercito libanese.

“Abito proprio lì, dietro l’angolo”, continua Alì. “Ho sentito il boato e sono sceso per strada. La colonna di fumo era altissima. Le persone piangevano, disperate. Ma qui, in fondo, ci siamo abituati. Ci prendono di mira perchè siamo sciiti, perché supportiamo Hezbollah”. Poco più di un mese fa un’altra autobomba ha ferito oltre 50 perone, fra le medesime strade.

“Sono stati i takfir, i terroristi” sostiene Mohammed, 30 anni. “Ci sono potenze in questa regione che usano questi gruppi per spargere il terrore. Sono gli stessi estremisti che combattono in Siria, mentre noi abbiamo deciso di appoggiare Bashar al-Assad”.  “Questo è un quartiere misto, sunniti, sciiti e cristiani vivono in pace”, continua. “Qui, al primo piano, un’intera famiglia sunnita, padre e due figli, è stata uccisa”.

“L’Europa”, e la voce di Mohammad si fa sardonica, “ha recentemente condannato come terrorista il settore militare di Hezbollah, risparmiando per convenienza quello politico. Ma Hezbollah è una cosa sola. Vengano ora i politici europei qui, a vedere chi è il vero terrorista”. Il primo ministro Najib Mikati ha indetto per oggi una giornata di lutto nazionale. “Vendetta?! Nemmeno per sogno. Fra due giorni sarà tutto come prima, le persone passeggeranno per fare la spesa” afferma con disinvoltura il giovane Alì. Il Libano, come sempre fin dalla guerra civile cominciata nel 1975, paga con il sangue la propria natura eterogenea, la prossimità geografica a feroci e spietati interessi globali. Mentre scriviamo in lontananza si sente lo schiocco ripetuto degli spari.

Luca Foschi

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