Hezbollah: «Non aspetteremo che dopo Assad facciano fuori anche noi»


Sheikh-ali-Daghmoush-afp-258di Ugo Tramballi1 giugno 2013

«È una cosa normale che Hezbollah sia dentro la Siria, per noi è una necessità strategica: se cade il regime di Bashar Assad noi in Libano siamo più esposti». Probabilmente non sfugge a sheikh Daghmoushe di parlare come fosse il rappresentante di uno Stato e non di un partito. Ma dopo varie guerre contro Israele, un arsenale missilistico da potenza di medio livello regionale e ora un intervento militare diretto nel conflitto siriano, il movimento sciita libanese è certo di essere un protagonista del Medio Oriente.

È una specie di assioma quello di Ali Daghmoushe, un ulema, cioè uno scienziato della fede, responsabile delle relazioni internazionali e membro del Consiglio della Shura, il sinedrio politico di 12 uomini che governa Hezbollah: «Se l'obiettivo della guerra in Siria è rovesciare un regime che sostiene la nostra resistenza - sostiene nel suo ufficio a Dahye, l'immensa periferia Sud di Beirut, controllata da Hezbollah - allora la resistenza non può non reagire perché l'obiettivo del nemico è la resistenza e la resistenza non può finire».

Di quale resistenza parla Daghmoushe? Prima di tutto della resistenza araba a Israele. Poi di quella sciita contro la maggioranza sunnita della regione, in un conflitto che era partito come una Primavera politica ed è sempre più precipitato in uno scisma religioso.

Sheikh, non pensa che con il vostro intervento militare il conflitto siriano si espanderà?
Sono i jihadisti, i salafiti, i partiti sunniti libanesi più moderati come quello di Sa'ad Hariri a sostenere da più di un anno che dopo Bashar faranno fuori anche noi. Pensa che siamo così sciocchi da ascoltare le minacce e aspettare?

Siete un partito libanese, con gli altri l'anno scorso avevate firmato una dichiarazione, impegnandovi a non fare nulla che provocasse un coinvolgimento libanese.
Gli altri stanno già destabilizzando il Libano facendo venire jihadisti da fuori. A Tripoli, nel Nord, combattono da giorni.

Ma intervenendo in Siria, Hezbollah rischia di dare un colpo di grazia.
Noi siamo la forza determinante del Paese: possiamo stabilizzare o destabilizzare il Libano. Siamo stati provocati molte volte e abbiamo dovuto agire. Abbiamo aspettato due anni mentre gli altri mandavano armi e combattenti in Siria. La differenza fra noi e loro è che noi abbiamo il coraggio di dirlo. Mi creda, faremo di tutto per impedire che il Libano sia coinvolto ma a questo punto tutte le porte sono aperte.

Nel Sud del Libano ci sono i caschi blu dell'Unifil comandati dal generale Paolo Serra e un migliaio di soldati italiani. Cambierà qualcosa?
Per Hezbollah no, senza alcun dubbio. Continueremo a lavorare ogni giorno insieme per la sicurezza e per le popolazioni locali. Ma non possiamo garantire per i salafiti. Uno dei loro obiettivi è ostacolare la missione Unifil. L'Unione Europea sta lavorando contro se stessa: sostenere i terroristi in Siria significa rafforzarli in Libano. (Dopo avergli ricordato che la posizione italiana è di non armare le parti, sheikh Daghmoushe annuisce con soddisfazione, n.d.r.).

Hezbollah crede a una conferenza di pace?
Ogni momento è giusto per una soluzione politica: la militarizzazione del conflitto non giova a nessuno. Ma la decisione di alcuni Paesi europei di armare i terroristi è una complicazione.

Lei dice che per voi è una questione strategica: non potete combattere Israele senza l'aiuto militare siriano e iraniano. In un certo senso riconosce le ragioni di Israele quando bombarda le linee di rifornimento fra Hezbollah e i suoi alleati.
Israele ha diritto ad avere paura. E anche noi abbiamo diritto di respingere Israele che continua ad aggredirci. È una barzelletta quando si dice che alla caduta di Bashar Assad noi prenderemo i suoi missili. Le armi strategiche per dissuadere Israele, Hezbollah le ha già.