Instabilità politica, illegalità diffusa e milizie armate: la guerra civile non pare conclusa. La ripartenza economica e il primo governo democraticamente eletto non bastano.
di Andrea Ranelletti
Roma, 19 dicembre 2012, Nena News - L'Assemblea Nazionale libica ha annunciato lunedì la temporanea chiusura dei confini con Ciad, Sudan, Algeria e Niger e dichiarato lo stato d'emergenza nelle sette province meridionali di Al-Shari, Ghadames, Obari, Ghat, Sabha, Murzuq e Kufra. Particolarmente tesa la situazione in quest'ultima città, dove nell'ultimo anno gli scontri tra civili d'etnia Tabu e milizie arabe hanno causato oltre un centinaio di morti.
La chiusura dei confini a tempo indeterminato arriva al termine del lungo tour diplomatico che aveva visto il primo ministro Alì Zeidan a colloquio con i governanti di Niger, Ciad e Sudan. La misura d'emergenza militare ha lo scopo d'interrompere l'intenso traffico di armi, uomini e droga che dai giorni della rivoluzione si verifica lungo i porosi confini meridionali della Libia.
Disarmare la Libia e imporre l'autorità delle forze governative si sta rivelando compito d'ardua realizzazione. Nell'ultimo mese il Ministero degli Interni è riuscito a neutralizzare l'azione di alcune milizie attraverso una politica d'inclusione nelle forze dell'ordine nazionali, ma l'enorme quantità di cani sciolti e l'indisponibilità alla trattativa di alcune delle brigate più potenti e legate ai locali poteri economici rende difficile neutralizzare la minaccia.
L'instabilità varia su base locale: se Tripoli sembra rispondere leggermente meglio al richiamo delle autorità (nonostante il forte aumento del banditismo e della piccola criminalità), è sufficiente spostarsi di poche centinaia di chilometri per immergersi nel caos di Bani Walid, Misurata e Homs, dove a inizio dicembre un'autobomba ha causato circa quaranta vittime.
Il Sud del Paese è teatro di scontri etnici, lotte di potere tra signori della guerra locali e traffici illegali. E incombe lo spettro del terrorismo internazionale: il network di Al Qaeda nel Maghreb Islamico ha buon gioco ad annidarsi nelle vaste aree desertiche del meridione libico, ramificandosi al suo interno. Il sito "StrategyPage" parla di una propaggine di Aqmi insediatasi nella città di Ghat al confine col Niger, da dove amministra un flusso di armamenti e munizioni diretti verso il Mali.
Nel caos generale si distingue il disagio di Bengasi, la città maggiormente sconvolta dalle violenze: milizie locali e fondamentalismo islamico sono qui più forti che altrove. Le ambizioni federaliste e irredentiste cirenaiche hanno ultimamente registrato un indebolimento, ma continuano a creare un'ulteriore complicazione per le forze governative e l'efficacia della loro azione. La milizia salafita Ansar Al-Sharia in Bengasi, la stessa che lo scorso settembre ordì l'attacco che causò la morte del diplomatico Chris Stevens e di altri tre cittadini americani, è tornata a darsi alla sua capillare opera di elemosina e servizio sociale in favore degli ex-combattenti e dei poveri del posto, ampliando un consenso popolare che rischia di ritorcersi nuovamente contro le autorità.
Milizie armate composte da ex-rivoluzionari, nuovi combattenti o opportunisti di vario genere continuano a compiere attentati alle forze di sicurezza locali. La finalità dichiarata è quella di sradicare le contiguità con il vecchio regime, ma le cause dell'attacco sono solitamente la rappresaglia in risposta ad arresti di miliziani o il tentativo di procurarsi armi e munizioni presenti nelle caserme.
Gli ultimi fatti di cronaca in arrivo da Bengasi indicano il persistere degli attacchi: domenica un missile sparato su una caserma ha ucciso quattro poliziotti. La scorsa settimana Mustafa Al-Sagezli, capo della Commissione per gli affari dei guerrieri, è sopravvissuto a un attentato legato all'accusa di gestire male i fondi d'assistenza per gli ex guerriglieri. Sempre a Bengasi le caserme di Foihat e Ras Obeida hanno subito altri attacchi da parte di milizie non riconosciute, mentre risale a fine novembre l'uccisione di Drissi, capo della sicurezza della città. L'enorme e incontrollato flusso di armi che ai tempi della guerra civile permisero ai ribelli di fronteggiare le meglio armate forze lealiste, è ora primaria causa di instabilità. L'azione di gran parte dei miliziani è oggi spinta dal desiderio di preservare la quota di potere accumulata attraverso la disponibilità di armi e munizioni e l'assenza di una prospettiva futura qualora decidessero di incrociare le braccia. Il risultato è l'istituzione di una legge alternativa a quella statale, basata sul controllo di piccole porzioni di territorio, sul rifiuto dell'autorità governativa e sull'esercizio della forza. Continuano ad arrivare notizie relative alla presenza di carceri in cui sono detenuti uomini accusati di vicinanza al decaduto regime: molti di loro non hanno subito alcun regolare processo e il loro nome non figura su alcun registro.
Il disordine non ha impedito all'economia libica di ripartire. Era prevedibile che, ristabilita una relativa tranquillità, la grande disponibilità di risorse energetiche avrebbe generato un immediato rilancio dei rapporti economici con l'estero. L'amministrazione e la burocrazia stanno lentamente tornando alla normalità dopo essere state decimate dalle epurazioni dei quadri filogheddafiani e presunti tali. L'esportazione di greggio e gas verrà ripagata anche attraverso l'importazione in Libia di know how e tecnologie utili a dar slancio a un'industria locale tradizionalmente asfittica. La stessa Banca Mondiale ha garantito il proprio aiuto e supporto tecnico alla ricostruzione delle istituzioni pubbliche e al rilancio delle loro capacità amministrative.
In questo scenario, l'intervento della Nato in Libia nel 2011 e il successivo disimpegno nella sua pacificazione aumentano i sospetti su quella che somiglia a un'operazione guidata dalla necessità di riallacciare rapporti commerciali e non dal desiderio di aiutare una popolazione a porre le basi per una democrazia stabile. La comprensione della prossima caduta di Gheddafi ha fornito l'occasione per eliminare il sistema di potere economico statale costruito dal Rais sulla florida disponibilità di risorse libica. L'attenzione alla necessità di importare un'economia di mercato in terra libica e la reticenza su modalità e tempi in cui verranno portati avanti l'apertura ai privati, la deregolamentazione e lo smantellamento dei monopoli di Stato, rischiano di aver un effetto deleterio sul benessere e sulla governabilità di un popolo abituato a un estensivo sistema di welfare.
L'instabilità politica, l'illegalità diffusa e le onnipresenti accuse di connivenze con il passato regime lacerano la Libia, aumentando le divisioni interne a una società fragile e incerta. Le ferite lasciate da una guerra civile, per alcuni non ancora conclusa, esasperano nel profondo una cittadinanza che esige pace e stabilità. Segnali positivi come la ripartenza dell'economia e l'insediamento del primo governo democraticamente eletto impallidiscono di fronte al protrarsi delle azioni delle milizie armate, ai conflitti tribali e alla minaccia fondamentalista.
Alì Zeidan e il suo Consiglio dei Ministri dovranno battersi per ottenere una legittimazione dai tanti attori che detengono un potere frammentato e pacificare finalmente una democrazia spaccata: il primo passo da fare è redigere finalmente la nuova Costituzione nazionale, evitando che nuovo ritardo si accumuli. Nena News
Inviato da Anonimo il Mer, 19/12/2012 - 15:28