di Luca Foschi
ZAATARI (GIORDANIA) Abdul siede all'ombra di una lamiera arroventata lungo gli Champs Èlisèe, la retta asfaltata che taglia in due il campo profughi di Zaatari, Giordania, un francobollo urbanizzato di deserto sul confine siriano. Abdul, 71 anni, vende pere arrosto e tè. Alla parola “sahafi”, giornalista, esplode in una filippica contro il regime di Bashar al-Assad. L'America deve distruggere tutto, dice, facendo planare le mani.
DODICI SCATOLE Consumiamo l'invenduto nel suo caravan, in compagnia di Mohammed, il nipote di 7 anni. I loro averi sono raccolti in una dozzina di scatole. Vengono da Daraa, vivono nel campo da un anno. A Mohammed rimane solo il papà, venditore di sigarette nel primo tratto dei campi elisi. «Anche se il campo è formalmente chiuso ai nuovi arrivi, ieri abbiamo accolto 200 persone. Venivano da Homs e dalla periferia di Damasco», spiega Reem Yaghi, supervisor dell'ufficio registrazioni dell'UNCHR, l'agenzia delle nazioni unite per i rifugiati. Dopo la consegna dei documenti presso le autorità di polizia i rifugiati pazientano per due giorni nello spazio d'accoglienza. Sono lunghi capannoni attraversati da filari di brandine. Il passaporto è finalmente sostituito con la tessera del campo, la nuova identità esibita con rabbia e rassegnazione, controllo dopo controllo.
TENDE E CARAVAN Il passo successivo è la distribuzione dell'alloggio. Tenda o caravan. Questi ultimi sono 17.000. Il campo ospita 25.000 famiglie. L'NRC, il Norwegian Refugee Council, assegna poi il kit d'arredamento: lenzuola, coperte, bombole del gas, pentole, prodotti per l'igiene personale. Così comincia la vita di un cittadino di Zaatari, che con i suoi 122.000 profughi è la quarta città giordana, il secondo campo profughi più grande al mondo.
«Quando ho cominciato, tre anni fa, c'erano 700 profughi in tutto il Paese. Ora la Giordania ne conta 600.000», racconta Eva Aoife Mc Donnel, 27 anni, irlandese, responsabile UNHCR per il campo. «Abbiamo raggiunto gli standard umanitari: cibo, acqua, scuole, ospedali. Ma l'aspettativa dei rifugiati supera le nostre possibilità». Lungo gli Champs Èlisèe esistono oramai 3000 attività commerciali: ristoranti, rivendite di elettrodomestici, macellerie, profumerie dove si miscelano le essenze, come in qualsiasi suq mediorientale. «In due mesi durante la notte la temperatura andrà sotto lo zero. Negli stessi giorni cominceranno le tempeste di sabbia», continua Eva. «Grande è la frustrazione. Il campo è costantemente connesso con la Siria. La notte si possono sentire i bombardamenti su Daraa. Molti sono arrivati qui convinti di dover trascorre solo qualche mese».
DESTINO DA APOLIDI L'incubo, per tutti, è quello di diventare apolidi per costrizione, parte di un luogo privato di diritti e dignità, essere i palestinesi del XXI secolo. L'ultima ispezione Onu nell'ospedale di Mafraq ha contato 16 neonati siriani su un totale di 31. «Attualmente il campo costa circa un milione di dollari al giorno», spiega Eva. «L'abbiamo suddiviso in 12 quartieri, ognuno rappresentato da un cittadino. In passato era la violenza a decidere la politica fra le tende. Stiamo cercando di creare un organismo rappresentativo, così che le persone possano portare indietro qualcosa, quando verrà il momento». Cosa pensa Eva degli oltre 400 tomahawk puntati sulla Siria, ognuno dei quali costato 300.000 dollari? «La comunità internazionale deve fare di tutto per migliorare la condizione degli oltre 2 milioni di profughi, metà dei quali bambini».
INTERNET E SIGARETTE I fanciulli spingono le carriole sui campi elisi. Offrono il servizio di trasporto merci per qualche spicciolo, giordano o siriano. Alcuni nell'ombra fumano sigarette. Altri si affollano negli internet point, diventati chiassose sale giochi. Una bandiera del Libero Esercito Siriano svetta sul negozio di Abdarraman al Bardan, 35 anni. È un luogo pulito, ordinato, chiuso dalle lamiere. Ricorda le vecchie botteghe italiane. «Il business va bene, ma la mia vita è finita in Siria. Ho perso una bambina di quattro anni in un'esplosione. Mia moglie è stata centrata in pieno petto da un proiettile, mentre attraversava la strada». Sono oltre 100.000 mila i morti della guerra civile siriana.
La maggioranza del campo è schierata con il fronte dei ribelli, riverbero perfetto della maggioranza sunnita tenuta lontano dai gangli del potere e dell'economia, fin dai tempi di Assad padre.
NELLE MOSCHEE È venerdì, giorno di riposo e preghiera. Centinaia si infilano nelle mosche di Mafraq, il centro più vicino. Il corridoio d'asfalto che lega la stazione del bus al campo è una fiumana di uomini e merci. Le donne mostrano il vestito buono. «Vediamo più di 500 pazienti al giorno», spiega il dott. Difar Almawashdi, di turno al pronto soccorso del JHS, il Jordan Health Service. «Soprattutto per gastroenteriti, problemi alle vie respiratorie, febbre. Dopo la visita indirizziamo agli ospedali del campo, quello finanziato dall'Italia, quello francese e marocchino. Oppure a Mafraq. Qui la spesa è enorme. Riceviamo tante pressioni». Il JHS è anche uno specchio della sicurezza interna al campo. Ogni giorno vengono ricuciti arti sfregiati da armi bianche. Diffuso è l'utilizzo di droghe. Si conta qualche caso di sifilide. Molte gravidanze precoci. «Qui si sposano a partire dai 14 anni», spiega Difar. Diversi sono stati i casi di stupro.
TIFANO PER L'ATTACCO Mohammed Mansour ha 22 anni e vende schede telefoniche per la Siria. Militava nella IV Divisione, la temuta truppa a difesa di Damasco di Maher al-Assad, fratello di Bashar. Le sue origini sunnite lo hanno costretto alla fuga. L'alternativa sarebbe stata il cappio, gesticola. Al bar di Ibrahim Sirnan ci si riunisce davanti al televisore, dove girano senza interruzione le notizie. «Assad è un criminale. Speriamo in un attacco occidentale». I jihadisti di Jabath al-Nusra? «Bene, aiutano la gente. Un giorno lontano dalla Siria è peggio di 100 giorni da schiavi». I giornalisti devono lasciare il campo entro le 5. «Impossibile garantire la sicurezza» insiste l'ufficiale della polizia per i rapporti con i media. Esistono angoli di Zaatari dove neanche le forze dell'ordine possono entrare.
RITORNO AD AMMAN Nel costipato taxi collettivo che ci riporta ad Amman, Hussain, 25 enne cittadino del campo , racconta la sua storia: «Sono avvocato. Otto mesi fa sono stato arrestato dalla polizia del regime. Collaboravo con i ribelli. Sono stato per 19 giorni in prigione. In una cella di 3 metri per 4 stipavano fino a 30 persone. Per una settimana non ho dormito né mangiato. Poi sono arrivate le torture», dice mostrando le cicatrici su gambe, spalle e torace. «Sono uscito grazie a una bustarella di 10.000 dollari. Fra venti giorni torno dentro, a combattere. Sto solo aspettando di aver raccolto il denaro». Hussein scende nella piccola cittadina di Zarqa. Lo aspetta una notte da tassista.
Inviato da Anonimo il Lun, 02/09/2013 - 13:06
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