di LUCA FOSCHI
ZAATARI (GIORDANIA) «Impossibile entrare. Serve l'autorizzazione dal Ministero dell'Informazione. È una questione di sicurezza. Esiste il rischio d'essere rapiti, o uccisi», dice serio Abdullah, giovane poliziotto giordano nella garitta improvvisata del cancello che dà accesso al campo profughi di Zaatari, Giordania. Un drappo protegge le guardie dal sole di mezzogiorno. Siedono pigramente su sassi e mattoni. Fumano e bevono caffè, portato su un vassoio da Mohammed, dieci anni dentro una maglietta dell'Arsenal. Pochi chilometri più a nord la Siria, una linea invisibile che taglia il vasto pianoro desertico. Zaatari, gestito dall'UNCHR, l'agenzia Onu per i rifugiati, è la più grande struttura d'accoglienza per i profughi del conflitto siriano. Secondo le ultime stime dell'Iom, l'International Organization for Migration, aggiornate ieri, Zaatari ospita 122.000 persone, 103 gli ultimi arrivati. È la quarta città giordana, il secondo campo rifugiati del globo.
LA FAIDA Il divieto opposto all'entrata, veniamo informati in serata ad Amman da fonti che preferiscono rimanere anonime, deriva anche da contingenti problemi di natura politica. Per cinque giorni una faida ha visto confrontarsi alcuni rifugiati siriani e un clan giordano di Mafraq, i Bani Hassan. Tre morti per parte originati da dissapori di natura “economica”. Il primo ministro giordano Ensour sarebbe intervenuto a placare gli animi. Ma gli Hassan, rifiutando ogni pacificazione, avrebbero chiesto un incontro diretto con il re Abdallah II, per chiedere l'espulsione dei profughi da Zaatari. In Giordania, dopo oltre 60 anni, incombe lo spettro di un nuovo fenomeno palestinese.
Sono due milioni i profughi siriani sparsi fra Libano, Giordania, Turchia, Iraq e Kurdistan. Diverse migliaia, i più fortunati, hanno trovato rifugio nei paesi del Golfo, nel Caucaso e nel Maghreb. Tante sono le storie della dispersa gioventù siriana incontrate in queste settimane fra Libano e Giordania.
BIRRA E BACKGAMMON «Sono un musulmano alla margarina», dice fra un sorso di birra e l'altro Ahmet el-Sheikh, 34 anni, attore, doppiatore, presentatore TV originario di Latakia, enclave alawita fedele a Bashar al- Assad. Come tanti suoi giovani connazionali vive negli ostelli da due soldi, dove le giornate trascorrono lunghe fra sigarette, riso cucinato nei dormitori e interminabili partite di backgammon. Nel 2011 presentava la commedia televisiva “Invito a cena" ospitata dal canale turco ATV. Poi la guerra civile. «La Turchia ha fin da subito supportato il fronte dei ribelli. Sono cominciate le pressioni. Così, prima che mi cacciassero, sono andato via». A Beirut Ahmet presenta una rassegna letteraria nel quartiere bene di Hamra, per pochi spiccioli. «La Siria, pur con il suo apparato repressivo e l'ingiustizia della sua élite, era un paese sicuro, si viveva a buon mercato. Un cambiamento era necessario. Ma la risposta armata ha portato solo sangue».
Nelle stesse vie di Hamra, Samir, 12 anni, vive facendo lo sciuscià, vagabondo e annerito dal lucido per i mocassini. Insieme al fratello maggiore, di 16 anni, due anni fa è fuggito da Daraa, sud della Siria. Samir rincorre i passanti ripetendo in inglese «le bacio i piedi signore, un dollaro per favore». Qualche chilometro a sud lo storico campo palestinese di Shatila vive escluso da ogni diritto, sommerso da pattume e criminalità. È un monito spaventoso, in questi giorni.
LO STUDIOSO «Cosa dovresti fare quando il governo spara sulla tua gente?», chiede Abu-Nour, 32 anni, studioso sunnita del Corano. Mohammed, originario di Tartus, sulla costa siriana, vive da mesi in un piccolo hotel di Baalbek, capoluogo della Bekaa. «Ero soldato in ferma nel maggio 2001. Ci ordinavano di sparare sui manifestanti. Ho corrotto diversi ufficiali dell'esercito per tornare a Tartus, a lavorare dentro un ufficio. Poi, quando il ritorno al fronte è diventato inevitabile, sono fuggito in Libano», racconta. Di vedute opposte Hamze, parrucchiere damasceno in attesa di un visto per la Svezia: «Con gli Assad la Siria era un paese pacifico, rispettato. Ora i terroristi hanno distrutto tutto».
«Dio ci mette davanti ad una prova», spiega Bassel, 32 anni, impiegato Onu a Damasco fino a sei mesi fa, ora lavapiatti a Beirut per 12 ore di lavoro e 17 dollari giornalieri. «I libanesi ne approfittano», dice. Tutti i giorni fa la spola fra la capitale e Tripoli, dove cerca di ultimare un master in management. La moglie e il figlio di un anno si trovano al sicuro in Arabia Saudita. Bassel è sunnita: «Non ci saranno vincitori. La Siria è distrutta. Vado avanti per mio figlio. Forse lui vedrà una Siria pacificata». In Libano e Giordania i siriani hanno occupato in massa la piazza della manovalanza sottopagata. Molti riempiono i marciapiedi con ogni sorta di mercanzia, dai piatti tipici al caffè, dal cartone al vestiario di seconda mano.
INFILTRAZIONE JIHADISTA Il fronte in Siria è sempre meno chiaro. Fra i lealisti di Assad, sostenuti da Iran, Russia, Cina e dal partito di Hezbollah e il fronte dei ribelli, appoggiati da Turchia, Usa, Ue e Arabia Saudita, si sono incuneate le forze jihadiste. Si parla di oltre 38 gruppi per circa 60.000 combattenti provenienti da tutto il mondo. I cartelli maggiori sono rappresentati da Jabat al-Nusra e dall'Isis, l'Islamic State for Iraq e Syria. La jihad ha portato la guerra anche nell'altrimenti pacifico Kurdistan siriano. Circa 35.000 profughi hanno nell'ultima settimana attraversato il confine di Sahela, entrando nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. L'attacco portato con armi chimiche nel settore est di Damasco nasce nella zona grigia di un triangolo dove si agitano interessi globali. Nei prossimi giorni ad Amman i vertici militari di Usa, Gran Bretagna, Italia, Francia, Turchia, Russia e Paesi Arabi si riuniranno per discutere la crisi siriana e il presunto impiego di armi chimiche. Gli Stati Uniti hanno rafforzato la flotta del Mediterraneo con la quarta imbarcazione dotata di missili.
SOTTO TERRA «La Turchia ospita circa 400.000 rifugiati, mentre il campo di Bab al-Salam ospita 16.000 persone», spiega Elisa Fangareggi di Time4life, un gruppo di volontari che mensilmente varca il confine con la Siria per portare soccorso ai rifugiati. «I bambini soffrono per le cure e l'alimentazione inadeguate. Ad Huraitan abbiamo organizzato 5 scuole, per circa 450 bambini. Per motivi di sicurezza sono sottoterra».
«Sono fuggito da Homs un anno fa», racconta Mohammad, 24 anni, sul bus che da Mafraq riporta ad Amman. Mohammed vive con la madre e i due fratelli in un piccolo appartamento, dove il tempo passa grazie a qualche risparmio e ai viveri distribuiti dall'UNHCR. Lavora gratuitamente per una charity che si occupa dei rifugiati. Studiava giornalismo quando la guerra è iniziata. Il padre, un impiegato statale di 50 anni, è stato ucciso nei combattimenti. Aveva abbracciato la causa dei ribelli. Gli occhi di Mohammed si riempiono di lacrime: «Tutto è stato spazzato via dalla guerra. Viviamo con poco, ci basta. Combattere?! No, non posso uccidere un altro essere umano». Ha vissuto 5 giorni a Zaatari, durante la fuga: «Orribile, siamo scappati immediatamente». Il futuro? «Non so. Non ci penso. Non esiste».
Inviato da Anonimo il Mar, 27/08/2013 - 08:25
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