Israele, l'attacco all'Iran e il conflitto siriano


IsraeleSegnaliamo e riportiamo un 'interessante analisi di Giuseppe Cassini, Ambasciatore d'Italia in pensione, su "il manifesto".

Qualche anno fa, prima che diventasse presidente d'Israele, Shimon Peres ci invitò a pranzo. Discutendo dello sviluppo nucleare iraniano, ci disse testualmente: «Abbiamo tre opzioni: militare, diplomatica, economica. Escludiamo la prima opzione; proseguiamo con la seconda pur credendoci poco; diciamo sì alla terza, perché le sanzioni servono allo scopo». Sull'Iran Peres aveva visto giusto. Un'inflazione al 50%, il rial svalutato sul dollaro del 300% in un anno, le esportazioni di petrolio dimezzate, tutto indica un'economia al collasso e lascia presagire un acuirsi delle tensioni fra governo, clero e popolo del bazar.

Confrontato a un sisma politico di magnitudo simile a quella dei terremoti che flagellano il paese, il governo Ahmadinejad potrebbe esser tentato di avviare un'audace, disperata partita a scacchi. Provetti scacchisti quali sono, gli iraniani potrebbero stuzzicare Israele (gli espedienti non mancano) fino a farsi bombardare i loro siti nucleari. Infatti, dall'altro lato della scacchiera c'è un giocatore nervoso, Netanyahu, cento cacciabombardieri pronti a decollare, e un ministro della Difesa, Ehud Barak, abbastanza cinico da stimare che in questa guerra morirebbero soltanto 500 israeliani.
Non sarebbe la prima volta che due Stati, messi alle strette, si avventurano in una scorciatoia bellica: la solita guerra che comincia bene e finisce male.

Male soprattutto per il mondo occidentale: blocco dello Stretto di Hormuz e petrolio a 200 dollari al barile (con lauti guadagni per i produttori ed effetti depressivi per noi); rappresaglie sciite su Israele (che infatti ha appena installato nuove batterie di missili Patriot a nord di Haifa); Obama costretto ad intervenire in aiuto all'aggressore per non esser linciato dai Repubblicani.

Facile immaginare, invece, la solidarietà dell'altra metà del mondo verso un Paese punito prima economicamente e poi militarmente. «Una potenza nucleare attacca una potenza non nucleare» intitolerebbero i giornali nei 130 paesi che a fine agosto hanno onorato Tehran con la loro presenza alla Conferenza dei Non Allineati: presenze d'altissimo livello come India, Egitto, Iraq, Indonesia, Sudafrica e il Segretario Generale dell'Onu in persona. Un successo inaudito per un Paese sotto embargo.
Ovviamente, l'attacco israeliano sarebbe un'operazione radicale che non sradicherebbe lo sviluppo nucleare, lo ritarderebbe soltanto. Mossad e Shin Bet sanno bene che Tehran non intende avere la bomba, ma vuole dimostrare di essere in grado di costruirla se necessario, e perciò ha moltiplicato il numero di centrifughe (oltre mille ultimamente) che lavorano sodo per arricchire uranio al 20%. L'obiettivo è solo la deterrenza; ma è proprio ciò che Israele non tollera, pur avendo esso stesso accumulato un deterrente di cento e più ordigni nucleari.

L'abilità a dissimulare. L'essere sciiti ha sviluppato nel Dna iraniano una raffinata abilità a dissimulare: si chiama taqiya. Nell'accezione originaria significa «timor di Dio», ma a forza di persecuzioni è arrivata a significare l'esigenza di celare la propria fede per sfuggire alle minacce sunnite (non diversamente predicava San Paolo ai primi cristiani in pericolo). Nell'odierna partita del nucleare gli iraniani stanno confermando la loro taqiya, la loro circospetta abilità a simulare e dissimulare.

Ma perché l'Iran si ostina in una politica che costa lacrime e potrebbe costare sangue? Semplice, vuol esser riconosciuto quale potenza regionale e quale tutore degli sciiti nel mondo. Pretende troppo? Chi nega questo all'Iran ignora quali persecuzioni gli sciiti hanno subito per secoli ad opera della maggioranza sunnita; e quali umiliazioni ha subito dall'Ottocento in poi un Paese formalmente indipendente, ma di fatto preda delle voglie degli zar, poi dei petrolieri anglo-americani e infine di Saddam Hussein. La vera domanda da porsi è un'altra: chi ci obbliga a giocare a Risiko sul nucleare iraniano, per giunta durante una recessione epocale?

Nessuno eccetto Israele. Eppure basterebbero due semplici mosse di Washington a sciogliere ben tre nodi: la ventilata minaccia iraniana, la guerra civile siriana (solo Tehran può dire basta ad Assad), le micidiali infiltrazioni di al Qaeda (perché l'Iran è un nostro alleato "oggettivo" contro il fanatismo sunnita, come lo fu l'Urss per gli Usa dopo Pearl Harbor).
Quali sarebbero le due "semplici mosse"? Primo, riconoscere il ruolo di potenza regionale dell'Iran. Secondo, sostenere la conferenza per un Medio Oriente denuclearizzato, come concordato nel 2010 dai 189 Paesi firmatari del Trattato di Non Proliferazione. Si era anche convenuto che la conferenza si tenesse a Helsinki entro il 2012: guarda caso, tutto tace. Quelle mosse, ormai, Obama può farle soltanto dopo le elezioni. Se invece vince Romney, non ci sarà alcuna speranza di salvare la Siria dal conflitto fratricida (che solo l'Iran può aiutare a placare).

Né ci sarà modo di «salvare Israele da se stesso», come scriveva il 6 agosto l'ex-presidente della Knesset, Avraham Burg, e neppure i 500 israeliani che secondo la cinica stima del ministro della Difesa morirebbero in questa guerra.




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