Maritsa Ohannessian intervistata da Armenpress racconta la diaspora armena del 1939


 

maritsa Ohannessian (2)Di Talal Khrais – Anjar – Libano

Collaborazione Sarin Askharian

 

Dalla sua infanzia a Musa Dagh, alla fuga e ai primi durissimi anni in Libano.

 

I profughi arrivarono qui nel 1939, solo la  malaria ne uccise più di ottocento. I primi esuli vissero a lungo avendo come dimora solo tende di stracci e nutrendosi di radici.

Per dare inizio a questa storia di dolore riportiamo un brano della lettera che papa Benedetto XV inviò, nel settembre del 1915, al sultano Mehmet V per supplicarlo di far cessare le violenze e le deportazioni a danno degli armeni.

 

«Ci giunge dolorosissima l’eco dei gemiti di tutto un popolo, il quale nei vasti domini ottomani è sottoposto a inenarrabili sofferenze. La nazione armena ha già veduto molti dei suoi figli mandati al patibolo, moltissimi, tra i quali non pochi ecclesiastici e anche qualche vescovo, incarcerati o inviati in esilio.

Ci vien riferito che intere popolazioni di villaggi e di città sono costrette ad abbandonare le loro case per trasferirsi con indicibili stenti e patimenti in lontani luoghi di concentrazione, nei quali oltre le angosce morali debbono sopportare le privazioni della più squallida miseria e le torture della fame.

Noi crediamo, sire, che tali eccessi avvengano contro il volere del governo di Vostra Maestà.

Ci rivolgiamo, pertanto, fiduciosi a Vostra Maestà e ardentemente la esortiamo di volere, nella sua magnanima generosità, avere pietà e intervenire a favore di un popolo, il quale, per la religione medesima che professa, è spinto a mantenere la fedele sudditanza verso la persona della stessa Maestà Vostra. Se vi sono tra gli armeni traditori o colpevoli di altri delitti, che essi siano legalmente giudicati e puniti.

Ma non permetta Vostra Maestà, nell’altissimo suo sentimento di giustizia, che nel castigo siano travolti gl’innocenti e anche sui traviati scenda la sovrana sua clemenza. Dica vostra maestà l’invocata e possente sua parola di pace e di perdono e la nazione armena, resa sicura da violenze e da rappresaglie, benedirà, al nome augusto del suo protettore».

 

Gli ottomani in passato e i turchi di Erdogan oggi continuano,anche se in maniera diversa,a perseguitare il popolo armeno. In questo nostro viaggio nella diaspora di un popolo ci rechiamo ad Anjar. In questo villaggio avvenne il trasferimento in Libano,da parte dei mandatari francesi,di una intera comunità che li unì i profughi di Musa Dagh a quello delle centinaia di migliaia di armeni, che vent'anni prima avevano trovato rifugio nelle città levantine di Aleppo, Baghdad, Damasco, Amman, sopravvissuti al genocidio.

L’incontro con Maritsa Ohannessian è una delle  testimonianze più vive della diaspora. Ci ha accolto nella sua casa e raccontato della sua infanzia a Musa Dagh, della fuga e dei primi durissimi anni in Libano, in cui persero la vita centinaia di esuli giunti ad Anjar.

I profughi arrivarono nel 1939, il freddo dei primi due inverni passati agli oltre mille metri di altitudine della valle, alla quale non erano abituati, ne uccise più di ottocento,uno ogni sette. I profughi furono costretti ad arrangiarsi in misere tende di stracci, mangiando radici.

Per giungere ad Anjar dovettero attraversare i monti del Libano e una parte della Bekaa. Pioveva in continuazione,la nebbia fittissima rallentò la marcia, due ore per fare 60 Km,ma finalmente arrivarono nella città considerata la perla della Regione proprio sul confine siriano. È la seconda volta che mi reco in questi luoghi per documentare la seconda diaspora degli armeni. Non so se questo sia un difetto,ma quando parlo della storia cancello completamente il presente,vivendo e sentendo ogni dettaglio degli avvenimenti passati,per poi tornare al presente e percepire di comprenderlo meglio. Nella mia immaginazione il tempo passa veloce,vedo il mandato francese,i ragazzi scalzi,la stoffa offerta dai francesi per fare le tende,si perché le tende hanno anche dovuto cucirsele da soli,sento sulla mia pelle la febbre della malaria assassina. Queste immagini mi hanno allontanato dalla realtà,ma devo sbrigarmi, Sarine Askharyan mi aspetta,mi accoglie con un sorriso profondo,ho capito che vuole davvero aiutarmi a comprendere questa tragedia. Mi accompagna da sua Nonna Maritsa Ohannessian, insieme ad un’altra giornalista Tamar, madre di tre gemelli, che si è resa disponibile a tradurre l’intervista,perché la nonna di Sarin parla solo la lingua armena. Grazie a Tamar riesco a comprendere e scrivere una storia di cui più nessuno parla.

Raggiungiamo insieme la casa di Ohannessian, ci accoglie sua figlia Silvia che teneramente assiste sua madre da quattordici anni perché è malata e non può muoversi dal letto. “Ho un grande desiderio,visitare l’Armenia ma non posso lasciare mia madre. Lei ha fatto molto per noi,ha sofferto con gli altri armeni della diaspora e oggi non posso lasciarla,neppure per una breve vacanza.” Dice Silvia. Maritsa Ohannesian, due anni prima della diaspora,nel 1937,si sposò  con un armeno e vennero insieme in Libano. “Giravano voci che la regione di Alessandretta sarebbe passata sotto la sovranità turca e i turchi non ci avrebbero lasciato in pace. Ricordavamo sempre ciò che avevano fatto nel 1915,l’ombra della paura era sempre presente. Così ho preferito sposarmi ed andare via”. Afferma la Nonna Maritsa.  “Avevo 19 anni e ricordo tutto:nel Luglio del 1939 venni a sapere che i francesi che ci aiutarono nel 1915,trasferivano gli armeni di  Musa Dagh  nella regione di Kassab (confine siro-turco) per essere poi trasferite in Libano. Molti profughi rimasero anche 40 giorni  in attesa di trovare un posto sicuro alcuni morirono colpiti dalla malaria e furono sepolti sul posto” ci descrive la signora Ohannessian. “Quando arrivammo ad Anjar andai con mio marito a trovarli,a trovare la mia famiglia, fu uno shock,avevano dovuto cucine le loro tende per avere un “tetto” sulla testa. Ho visto persone morire di malaria,i bambini portati fuori dalle zone di influenza turca,allontanati dai francesi per salvargli al vita. Non si poteva fare nulla, potevamo solo cercare di resistere, salvare i bambini e costruire un nuovo insediamento,costruire una vita dignitosa perché il mondo si era dimenticato di noi.”

Chiedo a Maritsa se le nuove generazioni conoscono questa storia, se sanno dei sacrifici che erano stati costretti a sopportare per farli crescere,se comprendono che questa  nuova cittadina è il frutto dei loro sacrifici. Mi risponde: ”Ciò che abbiamo fatto in passato aveva il senso di evitare che altri dovessero soffrire,purtroppo non tutti capiscono e definiscono questa come una vecchia storia che riguarda solo il passato, mentre noi vorremo che fosse una lezione importante affinché tragedie come questa non capitino mai più”.




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