Il genocidio armeno, una verità rinnegata: svista della storia o calcolo politico?


di Bruno Scapini – ex ambasciatore d’Italia in Armenia

Il 24 aprile si è commemorata la “grande tragedia” del popolo armeno: il Genocidio del 1915/18. Circa 1 milione e mezzo tra uomini, donne, anziani e bambini vennero uccisi con efferata crudeltà nel corso delle persecuzioni operate dalle milizie e dall’esercito turchi.

Con ostinata caparbietà, peraltro alimentata subdolamente da alcuni Paesi occidentali asserviti al volere di Ankara, il Governo turco si rifiuta ancor oggi di riconoscere il crimine di Genocidio nei confronti del popolo armeno, declinando qualsiasi responsabilità ufficiale e asserendo trattarsi di una mera persecuzione non organizzata dallo Stato, bensì da squadre di miliziani fuori controllo governativo. Tesi, questa, che pretestuosamente mira a negare l’esistenza di un progetto predeterminato e preordinato allo sradicamento dell’elemento etnico armeno dalla società ottomana. Dunque, nella speciosa interpretazione di Ankara, non si sarebbe trattato di una sistematica azione di eliminazione di un popolo su vasta scala, ma di delitti, commessi qua e là, riconducibili ad una incontrollabile sorta di guerra civile.

In rarissimi casi nella Storia si registra una tale ostinazione da parte di un Governo nel non voler riconoscere i propri crimini, per di più in presenza, al suo stesso interno, di diffusi movimenti di pensiero in aperto dissenso con la posizione ufficiale di Ankara. Ma evidentemente prevale ancora in Turchia l’attitudine al dispotismo, perfettamente incarnata nella sua attuale dirigenza capace di spingersi, nel confutare tesi avverse, fino alla repressione fisica degli oppositori – valga per tutti il caso del giornalista turco Hrant Dink ucciso nel 2007 – per metterli a tacere e non consentire loro di evocare fatti che possano turbare l’ordine precostituito del Governo.

Non bastano le ripetute condanne e reprimenda che ufficialmente provengono dal Consiglio d’Europa e dalle altre istituzioni operanti in materia di Diritti Umani, a far ravvedere la dirigenza turca. Anzi, il suo rifiuto a riconoscere il Genocidio, impostato pure giuridicamente attraverso la criminalizzazione della sua apologia, si è consolidato in un vero e proprio “negazionismo di stato” perseguito da Ankara con tutti i mezzi, anche all’ estero, e esercitando ovunque pressioni volte a contenere un pericoloso contagio delle idee. E c’è ancora chi si inchina al volere della Sublime Porta.

Mentre parecchi Governi si sono chiaramente schierati in favore del riconoscimento, la questione viene tuttavia in molti Stati ancora messa in sordina per tema di urtare le suscettibilità di Ankara. E’ ciò nella fallace convinzione di compiacere un Paese alleato e ritenuto ancora indispensabile per un Occidente che non vede esattamente quale sia oggi la direzione del corso della Storia.

A questi circoli politici “refrattari” al riconoscimento, che vedono ancora nella Turchia il baluardo dell’Occidente contro la Russia o un fattore di controllo sui fragili equilibri continuamente compromessi nell’area mediorientale da un irriducibile integralismo islamico, dovrebbe essere insegnato come convenga al mondo del futuro non singolarizzare la Russia quale nemico, ma anzi ritrovare con Mosca un rapporto fiduciario che, nel rispetto delle reciproche priorità, possa agire da migliore garanzia di cooperazione, stabilità e crescita comune.

La questione, comunque, è divenuta oggi non solo oggetto di forte attenzione, costituendo nella moderna Armenia indipendente, nata con il collasso sovietico, una delle priorità nazionali di politica estera, ma anche materia di analisi storica dopo il silenzio imposto dal sovietismo e dalla prevalente considerazione data all’Olocausto ebraico, la cui memoria è invece rimasta viva e accesa in virtù di una vasta storiografia sostenuta da motivazioni politiche. Storiografia che è invece mancata al Genocidio armeno, vuoi per via della ostinata azione repressiva svolta da Ankara, vuoi per la compiacenza dimostrata da alcuni stessi Paesi occidentali nei confronti della tesi sostenuta dai negazionisti turchi. Emblematica di questa ambiguità di fondo sarebbe proprio la condotta tenuta dai vari Presidenti americani che hanno sempre omesso nelle loro dichiarazioni ufficiali di citare la parola “Genocidio”, ricorrendo nel caso degli armeni, a definizioni consimili del tipo “ Grande Massacro” o “Grande Tragedia”. Una posizione, questa, che nell’intento di Washington dovrebbe far evitare di pregiudicare politicamente i rapporti intrattenuti con Ankara, beffando però al contempo il dovere etico di sposare la verità.

Per Yerevan, per contro, non si tratterebbe di ricercare un mero atto di compassione, né di solidarietà umanitaria e tanto meno di esprimere sentimenti di vittimismo. Bensì di conseguire, attraverso una “presa d’atto” politica del Genocidio da parte turca, la legittimità delle proprie aspirazioni a un riconoscimento di quella tragedia quale crimine contro l’ Umanità, quale elemento che, avendo sospeso la stessa identità nazionale di un popolo sradicato dalle sue terre di origine, esige oggi un conclamato atto riparatorio volto a restituire alla Nazione armena la dignità indispensabile per un suo giusto ricollocamento nella Storia, anzicché viverla pietisticamente solo ai suoi margini.

Nonostante, poi, la perseveranza negazionista di Ankara abbia sollecitato la cancellazione delle prove a conferma della riconducibilità dello sterminio a un preordinato progetto politico dell’allora Governo ottomano, esisterebbero amplissime evidenze documentali in senso contrario. E’ chiaro ormai oggi, sulla base delle tante inoppugnabili testimonianze disponibili – come quelle dell’Ambasciatore americano al tempo, Henry Morgenthau, di giornalisti e di religiosi stranieri e dello stesso Vaticano – che si è trattato di un vero e proprio disegno politico concepito da un regime che, preavvertendo la sua stessa fine, si sarebbe autodeterminato, nel disperato tentativo di ricompattare l’unità turca, a risolvere una volta per tutte quella che già al tempo passava per essere nell’Impero Ottomano la spinosa “questione armena”.

Non esiste, dunque, rimozione nella dimensione psicologica armena per questa immane tragedia. La memoria del massacro è sempre viva nelle coscienze individuali così come nell’anima collettiva di questo popolo. E il Genocidio, nella sopravvivenza della sua memoria, equivale oggi ancora a fattore di cementificazione dell’identità nazionale. Un fatto, o meglio, un misfatto che aggiungendosi al credo cristiano e al ruolo della lingua come strumento di transizione generazionale, vale per gli armeni come irrinunciabile causa unificante a dispetto di qualunque dispersione geografica o di diversità di destini. Ed è proprio a tale memoria che le comunità armene oggi affidano la speranza che questa tragedia non solo venga finalmente riconosciuta come crimine contro l’Umanità, ma anche, e sopratutto, che essa serva a non far dimenticare che il sacrificio da esse patito è parte integrante della Storia Universale e deve essere riconosciuto come tale per contribuire al progresso dei valori e dei Diritti dell’Uomo. Un interesse solo degli armeni? No. E’ interesse di noi tutti il riconoscimento di questo Genocidio. Ed è interesse in primo luogo di Ankara che soltanto da esso potrà trarre il doveroso riscatto morale, nonché la riconciliazione etica con la sua stessa Storia.