Italiana senza cittadinanza: la storia di Poullette, dal Perù alla Sardegna


di Poullette Stefano

Quando sono nata, a Lima nel 1988, in Perù c'erano dei conflitti tra lo stato e gruppi terroristi. La politica e il governo non favorivano la pace nel paese e anzi le persone più deboli e povere ne pagavano le conseguenze. La mia famiglia non era così povera e avevamo fortunatamente una casa dove stare e il cibo non mancava. Tuttavia, era uno dei barrios più pericolosi di Lima dove la notte ogni tanto era necessario chiudersi in casa perché erano in atto delle guerriglie tra gang di diversi quartieri.

In un contesto sociale come questo mia madre non avrebbe mai potuto garantirmi gli studi e una vita dignitosa quindi decise di partire per l'Italia. Dopo un primo momento fatto di stenti in Sardegna, trova lavoro e inizia da subito una lotta continua per riuscire a portarmi da lei ma, non riusciva a ottenere il visto: il reddito non era sufficiente e non aveva un contratto regolare.

Gli uffici a disposizione non erano tanti e quindi significava capire e studiare la burocrazia e la legislazione italiana da soli. Un compito quasi impossibile se consideriamo anche le difficoltà linguistiche.

La disperazione era talmente tanta da decidere di procedere per vie illegali. Era il 1995 e insieme a due mie zie e un gruppo di 13 persone più una guida pagata, decidiamo di imbarcarci nel primo aereo verso l'Europa come gruppo turistico.

Inizia un lungo viaggio tra freddo e boschi cupi nella notte, unici momenti in cui potevamo dirigerci verso le frontiere successive a piedi o dentro grandi camion. Prima o poi saremo arrivati in Italia. Il sogno di riabbracciare familiari, di vivere una vita migliore e il benessere europeo terminò ben presto, quando dei gruppi militari ci trovarono a ridosso delle frontiere ungheresi.

Rinchiusi in un centro di accoglienza che di accogliente aveva ben poco: porte e finestre a sbarre, cibo schifoso e militari con mitra ovunque, passavano i giorni. Un mese vissuto con  profughi provenienti da altri paesi, volti sofferenti, volti sorridenti nei momenti di conforto dove era necessario farsi forza l'uno con l'atro. La solidarietà crea un sentimento umano difficile da spiegare ma talmente forte da colmare quel vuoto e quella paura di non sapere che fine farai. Ci rimandarono in Perù sane e salve e la mia vita in Italia fu rimandata al 1997 quando finalmente mia madre ottenne il visto per portarmi via con lei.

Mi sono laureata alla magistrale in Relazioni Internazionali quasi 2 anni fa dopo un percorso migratorio di 20 anni. Lo dico con orgoglio perché per un immigrato studiare in Italia diventa davvero un lusso, significa non avere un reddito continuativo e rimandare la cittadinanza a chissà quando. Ogni volta che dico di non essere ancora cittadina italiana le persone cascano dalle nuvole perché lo danno per scontato. La verità è che ragazzi come ce ne sono tanti, perfettamente integrati e con una vita qui ma per troppo tempo rimasti in silenzio. Un giorno ti accorgi delle differenze tra te e i tuoi coetanei italiani e purtroppo riscontri che un permesso di soggiorno ha più valore della persona che sei e a quel punto o decidi di lottare per i tuoi diritti oppure continui a sentirti immigrata in un paese che senti tuo.

Siamo più di un milione e mezzo tra ragazzi cresciuti qui (immigrati di seconda generazione come me) e bambini nati qui da genitori stranieri. Siamo a tutti gli effetti italiani senza cittadinanza. Per me non cambierebbe nulla se non fosse che possiedo meno diritti: non ho il diritto di voto, non posso accedere a concorsi pubblici o a certe borse di studio e non posso viaggiare liberamente nei paesi europei se non per brevi periodi di tempo (altrimenti perderei i miei 20 anni di residenza e dovrei iniziare da capo, come se non fossi mai stata qui).

Io penso che la politica non debba strumentalizzare le vite umane per cavalcare l'onda dei voti. Penso invece che un reale processo di integrazione attraverso l'approvazione dello ius soli temperato/culturae e una seria strutturazione dell'accoglienza in Italia siano indice di civiltà oltre che di intelligenza.

Io mi reputo fortunata perché sono sempre stata ben accolta. Ma oggi parliamo di qualcosa di più, non parliamo più di un'immigrata ben accolta ma di persone che si sentono parte di un contesto sociale e che sono private di tale diritto. Penso a quanto sia stato difficile per me accettare queste mancanze e penso a quei bambini nati qui che parlano solo l'italiano ma hanno la "sfiga" di avere i genitori peruviani e poi penso soprattutto a quei ragazzi che stanno arrivando oggi, ormai  sempre meno perché confinati nei Lager in Libia o fatti morire in mare. Neri come il carbone e poveri.

Siamo tutti consapevoli di questa tragedia e dovremmo tutti vergognarcene.

Al di là della visione solidale che ho nei confronti dei migranti (se dimostri infatti di essere di buon cuore non vieni più preso sul serio o ancora peggio vieni sminuito), penso anche che siamo abbastanza stupidi nel  pensare che non siano una risorsa economica e dal punto di vista demografico. Se ognuno di noi approfondisse l'argomento capirebbe che è un fenomeno necessario per la nostra isola destinata non solo allo spopolamento ma anche ad una sempre più profonda mancanza di risorse economiche (chi vi pulisce casa? chi assiste vostro nonno/a? chi va nei campi in pieno Agosto?).

A prescindere dalla politica io mi considero sarda e continuerò a lottare per questo e per i valori con i quali sono cresciuta e dico sì alla xenofobia ma a quella disposta a mettersi in gioco attraverso la conoscenza e in discussione attraverso il dialogo, in caso contrario, parliamo di razzismo e nel 2017 mi sembra folle e pericoloso per tutti anche solo pronunciarlo.